
09/11/09
Il Corriere Adriatico
L’Europa comunitaria va avanti, lentamente e tra mille difficoltà dovute anche al pluralismo diffidente delle molte nazionalità dei mille veti e rancori spesso legati alla storia complicata di questo continente ma non di rado connessi a protagonismi e narcisismi di leader e leaderini. Alcuni di questi sono, senza dubbio, personaggi non all’altezza dei grandi scenari che questa nuova potenziale entità politica meriterebbe.
Il Trattato di Lisbona con cui l’Europa procede sostituendo il Trattato Costituzionale bocciato da francesi, olandesi e irlandesi, rappresenta il tentativo di ricucire una trama spezzata, la vittoria della tenacia degli assertori della politica dei piccoli passi. Se l’Europa prosegue il suo cammino, continua, però, a rimanere inerte, neppure sfiorato, il problema degli Europei. Il contenitore da solo può diventare una sorta di Stato, con i suoi organi e apparati ma non sarà mai in grado di far nascere una nazione di cittadini. Il concetto di nazione implica, in un modo o nell’altro, un sentimento di appartenenza basato su vincoli concreti ed invisibili allo stesso tempo. Due secoli fa, proprio sulla base di miti e tradizioni spesso inventati, emerse un sentimento di adesione e partecipazione popolare che trasformò i vecchi poteri dispotici in poteri costituzionali e dunque legittimi, sentiti cioè come giusti dai vecchi sudditi diventati nel frattempo cittadini.
Nacquero così le nazioni come le conosciamo oggi. Sentirsi tutti parte di una stessa “patria” non è quindi un prodotto che si trova in natura, ma al contrario rappresenta un raffinato processo di costruzione intellettuale e psicologica. Qualcosa di simile dovrà per forza accadere all’Europa che aspira a diventare prima o poi una nazione per quanto federata. La storia insegna che l’identità si solidifica soprattutto nel conflitto, quando cioè si riesce ad identificare l’“altro” che sfida il nascente “noi”. La guerra, purtroppo, rimane la più prolifica produttrice di identità nazionali ma, come è ovvio, si spera non debba avere alcun ruolo nel creare un’identità europea che, invece, dovrebbe nascere proprio dal rifiuto della guerra come strumento di sopraffazione, perché l’europeo medio, secondo un sagace anonimo, è “colui il cui Paese è stato occupato da stranieri”. Ma ci sono altri modi meno cruenti di simulare il conflitto e dunque cementare il sentimento del “noi” a livello di massa, come quelli delle competizioni dello sport. La partecipazione appassionata agli eventi sportivi rappresenta la forma moderna delle costruzioni identitarie. La forza espressa dalla partecipazione popolare agli eventi sportivi non ha pari, a livello emotivo, nel plasmare il senso di appartenenza, dalla dimensione municipale sino a quella nazionale. Da qui dunque è necessario partire per riflettere sulla gestione politica dello sport da parte degli organi di governo e di rappresentanza dell’Unione europea. Non si comprende come mai, sino ad oggi, non siano stati fatti degli sforzi da parte di Bruxelles per mettere in piedi una federazione comunitaria dello sport con l’obiettivo di dar vita a squadre della “nazione europea” da impegnare nelle diverse attività sportive con l’obiettivo di competere con atleti e formazioni di altre nazioni. Si tratterebbe di un’attività che andrebbe ad aggiungersi (senza escluderle) alle altre competizioni tradizionali, come i campionati mondiali ed europei.
Sappiamo bene che il mondo dello sport è geloso delle tradizioni e dello status quo, giustamente timoroso di invasioni di campo da parte della politica che spesso e volentieri ha cercato di utilizzare le competizioni sportive per sue finalità . Per questo c’è una grande attenzione da parte dei vertici sportivi internazionali nell’ evitare di rompere un giocattolo che è, tra l’altro, anche un enorme business. Pur comprendendo le resistenze del mondo dello sport dobbiamo, tuttavia, in questo caso, prendere atto che, sia pure a fatica e tra mille distinguo, una “nazione” sta nascendo e dunque potrebbe, se non addirittura dovrebbe, dotarsi anche di un proprio unitario linguaggio sportivo. Tale linguaggio peraltro non sarebbe solo un attributo ulteriore, ma avrebbe una funzione di accelerazione nel percorso verso l’Europa unita. La politica dunque dovrebbe cercare di portare ad un tavolo di contrattazione gli organismi sportivi nazionali chiedendo non di rinunciare al loro ruolo ma di dar vita ad un’altra istituzione che rappresenti l’Europa nel suo insieme. Se non si fa nulla nel settore emotivamente più importante per l’accelerazione della costruzione identitaria, allora vuol dire che, dietro la timidezza dei vertici politici, gli stessi non dimentichiamolo che sono stati capaci di mettere fine ai particolarismi monetari nazionali per far nascere una moneta comune, c’è o una ridotta capacità di leadership o uno scarso interesse a pensare l’Europa come la casa degli europei e non di italiani, francesi, polacchi, ecc. Inutile dire che questa è una “partita” che va ben al di là delle questioni sportive. Di fronte ai giganti che a livello internazionale stanno dettando tempi e modi del futuro sviluppo del pianeta, un’Europa silente e balbettante sarebbe una sconfitta inaccettabile di cui le élites del Vecchio Continente dovranno rendere conto alla storia.
© 2009 Radicali italiani. Tutti i diritti riservati