
13/01/11
Il Foglio
Diciamolo subito: non è un capolavoro, I critici, sulla stampa, si sono sbracciati nel decantarci le qualità di questo film. Più che recensioni, le loro sembravano soffietti pubblicitari. Posso sbagliarmi, ma dal regista di “Bird", "Million dollar baby", "Mystic river", "Gran Torino", "Flags of our fathers" mi aspettavo qualcosa di più, specialmente perché il film tratta di un tema tremendo, attorno al quale molto si è detto, scritto e fors’anche filmato, per cui prima di ritornarci su occorrerebbe riflettere un po’, andarci cauti. Clint Eastwood è uno che riflette, purtroppo però stavolta ha girato la pellicola più estranea al senso e al sentimento della morte che io possa immaginare. Come si può parlare della morte? Nessuno è in grado di parlarne per esperienza personale, quel che si può - forse - è cercare di analizzare i sentimenti, l’interiorità di chi ha avuto occasione di incontrare la morte. Che è sempre morte di un altro. La morte, infatti, è una storia raccontata da altri. E infatti Eastwood si muove più o meno in questa direzione. Non voglio svelare né la trama né gli elementi essenziali del film. Dirò il minimo: tre sono i protagonisti, tre persone (una di loro è un bambino) che fanno esperienza della morte, del morire.
Due di essi in un modo molto particolare: uno infatti (una donna, per la precisione) torna nel mondo dei vivi dopo aver sperimentato - o così lei crede - il trapasso all’altra vita; il secondo è un sensitivo che ha la facoltà (un dono o piuttosto "una condanna", come dice lui stesso?) di entrare in contatto con i defunti: non rivelo un segreto, la figura del sensitivo appare quasi subito, ben tratteggiata con la sua straordinaria capacità. Il bambino sperimenta cosa sia il morire quando il fratello gemello viene travolto senza scampo in un incidente. La morte resta un mistero. Un fatto, anche, ma anche un mistero. Lo spiritismo dei sensitivi ciascuno lo giudichi come meglio crede, anche se nel nostro film ne viene presentato uno che è almeno una brava persona, non un ciarlatano. Intorno alla morte si sono esercitati ingegni di prim’ordine, tentando di darle un senso.
Heidegger pone la morte come una "imminenza" che sovrasta il nostro "esserci", il nostro esistere; la morte, anzi, darebbe all’esserci, all’esistere (diciamo così, sommariamente) la possibilità di afferrare il senso della vita "autentica", non distratta dal chiacchiericcio del quotidiano. D’altra parte essa non è mai sperimentabile come realtà (almeno la mia morte, per me) e dunque è una possibilità che rimane permanentemente tale, che non si realizza, per me, mai. La visione di Heidegger non è certo quella cattolica, per la quale la morte non può essere compimento o misura dell’autenticità delle cose, del mondo, ma solo momento di passaggio dal transeunte alla realtà più vera. Comunque, sospeso tra destino (Heidegger, appunto) e fede, o storicità, del cattolicesimo, non credo che l’uomo possa ridursi all’immaginario di Eastwood: non basta un flash che riempie tutto lo schermo col suo bianco abbagliante percorso da larve umane per avvicinarci alla comprensione della morte, dell’(eventuale) aldilà.
L’unico soggetto che ha raccontato la sua morte e l’esperienza dell’aldilà è Gesù Cristo. Sappiamo (o immaginiamo: e ce ne perdonino gli esegeti di quei testi) quanta sia la parte del racconto di cui sono autori gli evangelisti, ma in quelle loro narrazioni vibra pur sempre una esperienza profonda, che non può non incutere rispetto. E comunque, al centro del cristianesimo c’è la figura del crocifisso, con il capo reclinato e il torace trafitto dal colpo di lancia inferto dal centurione di guardia per controllare e, come dire, certificare l’avvenuto decesso. Il cristianesimo è l’unica religione, credo, che ponga la morte - la morte del suo Dio - addirittura al centro della storia del mondo e ne trasformi il senso. Da laico, non ho nulla da dire, da recriminare o da criticare in coloro che credono nell’aldilà, paradiso o nirvana che sia. Ritengo che la laicità sia un comportamento, non un credo o una precettistica. Penso che vi siano laici, sinceramente laici, tra coloro che hanno fede nell’aldilà, e per contro il non credere dello scettico non è di per sé una attestazione di laicità. Spesso la negazione dell’aldilà è solo l’acida formulazione di un laicismo che assume così il volto di una religione, anzi di un settarismo deteriore. Di una cosa sono convinto: la laicità è comunque questione che riguarda la vita, non la morte o l’aldilà. Alla fine, potete soddisfare la vostra curiosità andando a vedere "Hereafter". È un polpettone, però perfetto, lucido e levigato, terrificante nei primi venti minuti, godibile per il resto. Un regista dai mezzi tecnici raffinati, padrone della macchina da presa come pochi, sicuro del suo mestiere, forse doveva osare di più: o magari osare di meno e attenersi a uno schema, a un copione meno ambizioso. Va bene, temo di non aver scritto, anch’io, un soffietto. Mi spiace per il grande Eastwood.
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