
Cosa c’è dietro lo strapotere sportivo della Cina? Cosa ha prodotto un miglioramento così prodigioso in pochi anni? Il Regno di Mezzo si avvia a primeggiare nel medagliere di Londra; forse solo gli Stati Uniti riusciranno almeno a contendere la supremazia. Eppure soltanto fino a pochi anni fa la Cina era ai margini del movimento olimpico, relegata a posizioni certamente non in linea con le sue dimensioni. Per capire bisogna evitare soluzioni estreme: non c’è nessun miracolo per la Cina dello sport, non esiste nessuna pozione magica, nessun allenamento speciale, nessun guru delle medicine.
Il successo si spiega con una miscela di componenti. Così come nell’economia, risalta il versante luminoso: il podio affollato di bandiere rosse a 5 stelle e l’orizzonte sfavillante delle città costellate da grattacieli. Un paese contadino si è trasformato in una potenza industriale e una nazione abituata a misurare il tempo con il sole ferma la lancetta del cronometro in record impensabili. La Cina non è infatti un paese dove lo sport appartenga alla tradizione. Il modello culturale privilegia il letterato, l’uomo saggio capace di governare con la propria sapienza tutte le discipline sociali. Non abbiamo mai visto un ministro cinese con le mazze da golf o sui campi di tennis.
Non deve dare un esempio fuorviante, non ha bisogno di conquistare consenso, non vuole derogare dalla sua immagine di serietà. Quando l’ideologia dominava, era necessario mantenersi in forma, allenarsi nel corpo e nella mente, essere in sintonia con la natura per costruire il socialismo. Ma la competitività era una chimera borghese, una deviazione individualista. I bambini cinesi venivano sottoposti a esercizi durissimi solo per un fine più nobile. L’Opera di Pechino ad esempio richiedeva nervi d’acciaio, gambe sinuose e muscoli potenti. Solo esercizi al limite della resistenza fisica potevano produrli. Si cominciava da piccoli per salire sul palcoscenico da ragazzi. Oggi invece è la globalizzazione la vetrina più immediata. Una Cina vittoriosa trova consensi all’interno e incute rispetto sulla scena internazionale. Dimostra che non solo di ferro e cemento è composto il suo successo. Ha un solo obiettivo a Londra: rastrellare medaglie. Ha messo in pista tutte le sue armi, che chiama con nomi nobili: dedizione, impegno, disciplina, patriottismo. Sono qualità necessarie ma non sufficienti per vincere. Tuttavia, non lo sono neanche quelle espresse dai suoi detrattori: opacità, sospetti, doping, spietatezza. Le immagini delle ginnaste cinesi sottoposte ad allenamenti durissimi stringono il cuore; i tempi della nuotatrice Ye Shi Wen moltiplicano i brutti pensieri. Eppure non è la Cina ad aver insegnato che l’importante è vincere e non gareggiare. Forse ha soltanto ribaltato la fede di De Coubertin, disvelandone l’ipocrisia, rendendola ancora più brutale.
La Cina spadroneggia ma non convince. Incamera medaglie ma non è diventata un paese sportivo. Suscita prima apprensione e poi ammirazione. Ragazzine volenterose salgono sul podio di scherma, nuoto, ginnastica, sport dove l’applicazione sistematica è la prima regola per vincere. Quando riuscirà a eccellere senza sospetti, anche negli sport che prevedono la fantasia, dove l’imprevisto gioca un ruolo ineludibile, allora potrà aspirare alla vera supremazia: costituire cioè un modello da rispettare non soltanto per il numero delle medaglie che riesce a conquistare.
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