
Ci sono solide ragioni (si badi: solide ragioni non vuol dire affatto buone ragioni) per cui l’Unione Europea, nonostante tutte le promesse, continui a fare orecchie da mercante alle ripetute, sempre più pressanti, richieste avanzate da vari Paesi mediterranei suoi membri, e innanzi tutto dall’Italia, perché di fronte all’imponenza del fenomeno dell’immigrazione sia finalmente adottata una politica comune. Una politica comune fatta ad esempio di un aiuto in mare ad opera di navi di tutte le marine europee, di distribuzione concertata degli immigrati nell’intero territorio dell’Unione, e soprattutto di effettiva condivisione delle spese sempre più ingenti richieste dal meccanismo dell’accoglienza. Niente da fare.
La sollecitudine per i diritti dell’uomo, che risuona con toni così alti quando viene proclamata a Bruxelles o a Strasburgo, sulle spiagge e tra i flutti del Mediterraneo diventa un sussurro impercettibile. Italia, Grecia, Spagna si arrangino: se decine di migliaia di immigrati si accalcano sulle coste africane e asiatiche per entrare in quei Paesi, non sono cose che riguardano l’Ue. Ci sono solide ragioni, ripeto, per questo comportamento dell’Europa. Le quali, tra l’altro, ci fanno capire che cos’è che nell’Unione non funziona.
La verità è che mai come in queste settimane, nell’imminenza delle consultazione elettorali, le classi politiche di governo del continente specie della sua parte centro-settentrionale stanno toccando con mano quanto siano diffusi nei loro elettorati i timori legati alla sempre più ampia presenza di immigrati. Dalla Danimarca alla Francia, ai Paesi Bassi, la propaganda spregiudicata di vecchie e nuove formazioni politiche - di destra ma non solo: più spesso capaci di mettere insieme temi di destra e di sinistra - sta conquistando ascolto e consensi soprattutto negli elettorati popolari e operai dei centri urbani. Sono specialmente questi, infatti, che oltre a soffrire il disagio economico e ì tagli del Welfare causati dalla crisi, oggi, di fronte al mutamento etnodemografico sembrano avvertire sempre di più la questione lacerante della propria moderna identità socioculturale.
Che per essi è generalmente legata in misura decisiva alla dimensione locale-nazionale, a differenza delle élite borghesi, della cultura e del denaro, ormai progressivamente avviate a un superficiale cosmopolitismo anglofono. In queste condizioni potete immaginare che voglia abbiano i governi europei di preoccuparsi di aiutare l’Italia e gli altri Paesi mediterranei facendosi carico di un problema che già li mette così in difficoltà a casa loro. E che voglia abbiano quelle opinioni pubbliche - realmente, non a chiacchiere - di occuparsi dei barconi che colano a picco tra la Libia e Lampedusa. Tutto ciò accade, come dicevo, a causa di un limite paralizzante di cui soffre la costruzione europea. E cioè che in sessant’anni non è nato nulla che assomigli in qualche modo a uno spazio politico europeo comune.
Cosicché le vite politiche dei Paesi dell’Unione procedono ognuna per conto proprio, ogni partito e ogni governo europeo se la deve vedere unicamente con i propri elettori, e questi hanno problemi che a tutti gli altri non importano nella sostanza un bel nulla. Quello spazio politico comune manca perché la sua esistenza avrebbe significato un’evidente cessione di sovranità. Ebbene, è vero che finora di cessioni del genere ce ne sono state già molte, anzi moltissime, ma esse sono sempre avvenute per così dire «clandestinamente» (tranne quella a proposito dell’euro, dove era impossibile). Cioè senza che di tali cessioni ci fosse da parte dei cittadini europei alcuna percezione preliminare (e spesso neppure successiva!): dal momento che esse erano adottate al riparo da occhi indiscreti da una ristretta élite politica, perlopiù abituata ad amministrare in modo padronale sia l’europeismo che l’Unione (e anche per questo pronta, sia detto tra parentesi, a identificarsi conformisticamente con entrambi).
Assai diverso è il caso che invece si presenta sempre più di frequente oggi. Dopo l’euro, infatti, la «clandestinità» delle decisioni è estremamente più difficile. Così com’è molto più difficile nascondere la cessione di sovranità che esse quasi sempre implicano. E d’altra parte a reali e consapevoli cessioni di sovranità nessun Paese è in cuor suo veramente disposto, mentre nessuna classe di governo, dal suo canto, è realmente disposta a farsene paladina a viso aperto. La costruzione europea si trova insomma in una situazione virtuale di stallo. Nessun leader o partito osa proporre alcunché di concreto per uscirne, e la campagna elettorale affoga così in un mare di pavidità e di chiacchiere. Gli immigrati, invece, loro continuano assai meno metaforicamente ad affogare nel mare vero.
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