
28/09/10
L'Unità
Il mondo si mobilita, e giustamente, per salvare la vita di Sakineh. Dell'esecuzione di Teresa Lewis ci siamo accorti con un po' di ritardo. Certo, Sakineh è iraniana, la Lewis è, anzi, era, americana. Cittadina del Paese-faro dell'Occidente. Certo, la lapidazione è pena barbara. Se ne dovrebbe concludere che iniettare sonniferi e poi farmaci letali a una persona legata con cinghie di cuoio e assistere alla sua "tranquilla" agonia è atto estremamente pietoso, e comunque compatibile con la nostra coscienza democratica. Eppure. La condanna a morte, nei sistemi che l'ammettono, è "omicidio legale". Se consegue a un processo condotto secondo le regole, essa è perfettamente ammissibile. Dunque, "legale".
Il fatto è che se sei contro la pena di morte (è il caso di chi scrive) lo sei sempre e comunque, per colpevoli e innocenti, e qualunque sia la modalità scelta. Il fatto è che ad ogni condanna a morte i consensi del politico impietoso, del governatore "duro" si impennano. Il fatto è che l'omicidio legale esercita il suo fascino perverso, in egual misura, sulle masse di ogni parte del mondo. Sa di essenzialità, la pena di morte, manda un messaggio forte e chiaro, sgombra il campo dalle pastoie del garantismo, sempre più vissuto come fastidioso orpello dai "decisionisti" sotto ogni cielo. Muove gli stessi riflessi della pulizia etnica dei Rom e della repressione delle nuove "classi pericolose". Alimenta e dà sfogo al livore e all'odio di milioni di individui frustrati, condannati alla solitudine e all'esclusione. E nello stesso tempo legittima il "tribunale tribale" che si annida nelle pieghe della coscienza di tante insospettabili, miti "brave persone". E su questo che dovremmo riflettere, e se possibile intervenire. Per tutte le Sakineh e le Teresa Lewis, dovunque si trovino, colpevoli o innocenti che siano.
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