
L'Iraq non è stato in questi dieci, vent'anni soltanto un paese in cui sono avvenute delle cose, per lo più tremende. È stato lo specchio in cui noi europei e americani ci siamo guardati per capire le cose, per rispondere agli imperativi, a diverse idee sul da farsi, in particolare dopo l'11 settembre 2001. Se estendiamo il campo di ricognizione alla prima guerra del Golfo, nel 1990-1991, si può dire che una intera generazione occidentale si è formata una coscienza politica globale, ha assorbito linguaggi e valori, ha prodotto una sua idea del mondo e della storia sulla base di quanto accadeva in Iraq.
Bombe, marce pacifiste, rapimenti, sangue, terrorismo o «resistenza», imperialismo o strategia di liberazione, torture ed eroismo sul campo, dilemmi morali aspri, divisioni radicali anche a sfondo religioso, accuse lancinanti di lassismo o di cinismo guerrafondaio, sospetti sulla «guerra del petrolio», la cattura e l'impiccagione di Saddam Hussein, la politica realista e di protezione delle minoranze cristiane del Vaticano, il profetismo antiguerra di Giovanni Paolo II, la politique arabe della Francia che divise l'Occidente, l'accusa tribunizia di una «guerra illegale» (come se le guerre fossero ordinanze giudiziarie), la questione delle informazioni non riscontrate sulle armi di distruzione di massa che divenne presto la «grande bugia del potere», e poi satire, sceneggiature, talk show, show, telegiornali dominati dalla paura e dalla speranza in una misericordia che non
arrivava mai, un fiume di sentimenti, di parole, di bandiere bruciate e di sguardi e ghigni posati su un tempo indemoniato, impossibile, moralmente intrattabile.
Ora che per la quinta volta quel paese ha votato, sfidando la barbarie terrorista, ora che il ritiro americano programmato da George W. Bush e realizzato da Barack Obama sembra possibile senza un balzo all'indietro nell'orrore, ora la rivista liberal dell'establishment di Washington, Newsweek, scrive della «rinascita di una nazione», Beila costruzione lenta e fragile ma impressionante di una forma politica della democrazia irachena. E cita Bush, che fu coraggioso e sfacciato abbastanza, in anni molto duri (il 2003), da dire: «In Iraq la democrazia avrà successo, e quel successo porterà da Damasco a Teheran la notizia che la libertà può essere il futuro di tutte le nazioni. L'istituzione di un Iraq libero al centro del Medio Oriente sarà uno spartiacque nella rivoluzione democratica globale».
Ora l'Oscar per il miglior film è andato a un racconto, girato da una donna fantastica, sull'eroismo dei soldati americani che si sono battuti contro gli eserciti dell'ombra di Al Qaeda e del Baath saddamita, e il liberal Michael Walzer ammette che l'Iraq non è paragonabile al Vietnam, che la distinzione di bene e male a Baghdad era più chiara che non a Saigon o a Hanoi.
L'opinione è incostante, meretrice per definizione, e le guerre accettate sono soltanto le guerre vinte, e dopo che sono state vinte. Un anno fa a Venezia la platea radical chic aveva accolto nel gelo il film che oggi trionfa nella storica manifestazione di consacrazione del grande cinema mondiale.
Non una goccia di petrolio è stata scambiata con il sangue iracheno e americano, ma anche inglese, italiano, olandese, giapponese, danese della coalizione dei voleriterosi, i willing. Nessun progetto egemonico è venuto alla luce, e la costruzione delle condizioni per un ritiro onorevole, dopo la missione compiuta dell'instaurazione di una democrazia possibile, è ancora una volta l'unica impresa imperialista che gli americani abbiano compiuto. Penso a quella professoressa del liceo Visconti di Roma che portò i suoi ragazzi a vedere il film di Michael Moore contro Bush e le sue guerre catastrofiche: chissà se darà loro una seconda chance, la possibilità di capire che cosa è davvero accaduto.
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