
11/10/10
La stampa
La prossima settimana il ministro della Difesa Ignazio La Russa incontrerà il generale Petraeus a Roma. Sarà l'occasione per avanzare un'ipotesi di exit strategy del contingente italiano dall'Afghanistan: entro la fine del 2011 lasciare nella zona ovest solo degli addestratori e non spostare i reparti operativi nelle altre zone». Anche se ci venisse chiesto.
Ci spiega meglio il senso della vostra proposta?
«Intanto è essenziale chiare che ne voglio discutere nelle sedi opportune con Petraeus, con la Nato. La nostra strategia è per prima cosa conquistare il territorio, addestrare gli afghani, dare alla politica di Kabul la possibilità di gestire in proprio la loro polizia e il loro esercito. Potrebbe avvenire che la nostra zona ovest entro il 2011 venga largamente consegnata al governo afghano, più di altre zone. A questo punto dovremmo affermare il principio che noi non andiamo in un'altra zona».
È un'ipotesi realistica visto che il ritiro previsto da Obama ha come scadenza il 2013?
«Se noi riusciremo a fare uno sforzo, con l'aiuto di tutto il contingente internazionale, di dare al governo di Herat il controllo di tutta la zona ovest, quello sarà il momento per far rientrare la gran parte dei nostri soldati che hanno compiti operativi, concentrandoci sull'addestramento. Ecco perché la missione internazionale può andare avanti fino al 2013, ma io spero che il nostro compito possa finire prima».
Ne ha parlato con Berlusconi?
«Di questa strategia in particolare no, ma una cosa è certa: noi non prenderemo decisioni unilaterali. Su questo siamo tutti d'accordo».
Lei è stato criticato per volere armare i bombardieri, ma ci sono state aperture dell'opposizione
«Io sono quello che non ha voluto armare i bombardieri e non so se è stata una decisione giusta, mentre tutti gli altri Paesi lo hanno fatto. Non ho voluto perché in quel momento non era tatticamente indispensabile e nei rari casi in cui è stato necessario sono venuti gli aerei inglesi e americani a darci manforte. I nostri militari si sono sentiti a disagio nel non poter fare da soli. E io ho detto che un po' di disagio vale la serenità di sapere che nessun errore può essere messo in conto. Dio non voglia che una bomba finisse su una casa civile: sarebbe una cosa che ci arrecherebbe un grande dolore e anche un grande danno politico. Se avessi scelto di armare gli aerei non avrei avuto bisogno di chiederlo al Parlamento perché il problema è il modo di utilizzare gli aerei. Se io lancio una bomba per difendere una colonna militare rimane una missione di pace. Non è l'arma che qualifica la missione ma il modo con cui la usi. Ora io dico che la situazione è cambiata e c'è una maggiore pericolosità: non me la sento di cambiare da solo questa impostazione e chiedo al Parlamento che deve decidere. Ho visto che Rutelli è a favore, Fassino ha fatto una grande apertura, Parisi ha detto è giusto poter armare gli arei ma questo cambia la natura della missione. Io dico che non è vero perché l'Italia ha usato le bombe sganciandole in Kossovo durante il governo D'Alema: una missione che noi abbiamo votato».
L'impressione è che ci sia un'ambiguità sulla natura della nostra presenza in Afghanistan.
«È un'ambiguità tutta ideologica. Noi vogliamo riportare la pace a un popolo martoriato. L'errore è di chi pensa che non si debba mai fare ricorso all'uso della forza. È un'opposizione pregiudiziale quando ci sono gli americani come coprotogonisti. Se ci fosse un nostro intervento senza americani contro una dittatura di destra non ci sarebbe alcuna preclusione».
Ci sono stati militari scampati alla morte o impegnati in scenari di guerra che hanno molti dubbi.
«In tutti i militari che ho incontrato ho visto una grande motivazione, un grande amore per l'Italia e consapevolezza della loro lavoro. A Farah, nella parte più avanzata, parlai con i soldati mandando via i generali. Gli chiesi: di cosa avete bisogno? Mi dissero: "vogliamo più elicotteri e più risorse per fare meglio il nostro lavoro". Questo non l'ho dimenticato e erano truppe speciali».
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