
«Il centrosinistra non ha un’identità dai tempi dell’euro. Una sfida enorme, che ebbe successo. E ci regalò, per una volta, un vero profilo identitario», dice il democratico Nicola Zingaretti, presidente della Provincia di Roma. Quattordici anni dopo, Silvio Berlusconi non dà risposte ma vince mentre il Pd «non dà risposte e non recupera le fasce sempre più ampie che rinunciano al voto».
Basterebbe quindi frenare l’astensionismo per tornare al governo?
«La prima alleanza che il Pd deve stringere è quella con l’elettore, con i cittadini. Poi verrà il problema delle intese con le forze politiche. Possiamo pure proporre una coalizione credibile ma se il disoccupato o l’imprenditore in crisi, al momento delle elezioni, si trovano di fronte il capocorrente che gli chiede il voto per il suo candidato e non il partito, andiamo a sbattere un’altra volta».
Sta dicendo che il Pd deve ripartire da zero.
«Da zero proprio no, ma quasi. Abbiamo tre anni di tregua elettorale, è un’occasione storica per costruire finalmente un confronto che abbia al centro la nostra cultura politica, il progetto per l’Italia. E per rompere gli schemi del passato. Penso, per esempio, allo stato sociale degli anni’60 e’70, una straordinaria conquista della democrazia. Ma un giovane di oggi non sa di cosa stiamo parlando e non ha alcuna tutela da quel tipo di welfare».
Questa rivoluzione si può fare con Bersani segretario?
«Con lui segretario, certo. In fondo ha già provato a offrire un progetto nuovo per le regionali. L’ha chiamato alternativa. Ma in due mesi era difficile che producesse risultati».
Al Pd rimane solo la forza degli amministratori locali. Persino Calderoli, al Sole 24 ore, ha detto che è più facile confrontarsi con voi sul territorio. Sindaci, governatori, presidenti di provincia: tocca a voi prendere in mano il partito?
«Chi guida gli enti locali può certamente dare una mano. Noi abbiamo l’agenda scandita dalla vita delle persone. E quello che io vedo è un Paese immutato. Non cresce l’economia, fra poco finirà la cassintegrazione, i giovani che si stanno laureando troveranno un mercato del lavoro al tracollo. Questo popolo se ne frega del referendum su Berlusconi».
Mica tanto, se lo ritira su ogni volta che sembra al tramonto.
«Ma il 40 percento degli italiani non va più a votare. Ormai da dieci anni il punto non è la contendibilità dell’elettorato, bensì il fatto che fasce sempre più grandi di cittadini si tengono alla larga dalle urne. E se la questione è riportarli ai seggi il messaggio identitario di Berlusconi funziona meglio del nostro. Giuramenti, giudici, comunisti sono parole d’ordine che convincono le persone. Sempre meno, ma abbastanza per imporsi».
Voi invece rimanete al palo.
«Gli astenuti non trovano risposte nemmeno da noi. Ma la delusione sociale è enorme. Dobbiamo cimentarci su come mettere in campo una speranza per incrociare chi è interessato a una prospettiva di sviluppo del Paese. Dobbiamo impiegare questi anni a costruire un’agenda democratica sulla quale le prime risposte verranno dagli amministratori locali. Senza congressi».
Sta proponendo una conferenza programmatica?
«Non una. Magari due o tre, sui grandi temi. Chiamando a raccolta innanzitutto gli interessati: imprenditori, il mondo del lavoro, i precari. E assieme a loro i massimi esperti mondiali di questi settori. Va creata un’agenda sul lavoro, per combattere l’ansia da precariato. Poi, un’altra agenda per far funzionare lo Stato. Qui la destra ha clamorosamente fallito. Pensavano di trasformare la pubblica amministrazione creando gli appalti facili come è avvenuto nella Protezione civile. Bene: è aumentata l’opacità delle procedure, la corruzione, si sono strozzati aziende e lavoratori. Infine, va riscritta l’agenda dei servizi che in Italia fanno schifo. Vanno cioè costruiti un progetto e una speranza fatti di contenuti e di scelte. Così del resto ha fatto Obama».
Perché sindaci e presidenti dovrebbero riuscire lì dove falliscono i segretari?
«Non penso che la strada per arrivare a un progetto credibile passi solo dagli amministratori locali. Dico però che nella scelta della classe dirigente, sul territorio ha prevalso più la sostanza e la capacità di rapporto con il Paese che le appartenenze a qualche gruppo. Chiediamo che questa esperienza sia fatta pesare di più».
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