
Sono quasi le otto e mezza di sera e Giorgio Napolitano sta uscendo dall'Hotel Amigo per andare a cena. Ha un aspetto tonico nonostante la faticosa giornata di incontri («chiusi molto positivamente», dice, ciò che forse spiega l'aria rilassata) all'Unione europea. Prima che infili la porta, è inevitabile chiedergli come giudichi gli ultimi sviluppi sullo stop alle liste di Renata
Polverini e Roberto Formigoni.
Presidente, a Roma si sta diffondendo un certo allarme perché il Pdl sembra voler portare la propria prova di forza in piazza. Che cosa ne pensa?
Il capo dello Stato si prende qualche secondo di respiro, prima di dire, con aria sdrammatizzante: «Beh, in Italia la libertà di manifestare è sancita e garantita dalla Costituzione...».
Tuttavia, insistiamo, la tensione rischia ormai di crescere a livelli preoccupanti.
«Certo, tutta questa storia è un bel pasticcio».
Si recrimina che alla base delle decisioni prese finora in sede giudiziaria ci sarebbero soltanto cavilli e che i formalismi «non possono comprimere i diritti della democrazia».
«Ho dato una scorsa poco fa alla sentenza sul caso di Milano, in cui si respinge il ricorso sul listino Formigoni. Mi pare che la seconda parte del testo sia chiara. Vi si spiega - e credo di essere quasi letterale nel citarla - che i principi di democrazia e partecipazione costituzionalmente garantiti non possono che svolgersi nel rispetto dei limiti e delle forme previste dalla legge. Ecco: direi che le sentenze vanno lette per intero».
Come si chiuderà questa partita?
«Non ne ho davvero idea. Ci si aspetta una pronuncia per domani (oggi per il lettore,
n.d.r.), e dunque presto sapremo. Non so quale situazione sia più a rischio, ma mi pare che il caso di Roma sia più complesso di quello di Milano».
Altre parole non pronuncia, il capo dello Stato, mentre lascia l'albergo salutando. Ha, come
sempre, sorvegliato le sue risposte fino alle virgole. E c'è da capirlo: non vuole farsi coinvolgere
nelle polemiche, né tantomeno che gli si addebiti una qualsiasi idea di soluzione politica della querelle. Eppure, anche con quel poco che ha detto, è come se avesse dato una chiave di lettura supplementare al suo comunicato di lunedì, quando ufficializzò con una lettera al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, la propria impotenza a intervenire. Insomma: la preoccupazione di «una piena rappresentanza» al voto regionale del Lazio e della Lombardia, per la quale il Pdl si era appellato a lui, la «comprende» e la «condivide». Ma non si può chiamarlo in causa, per di più facendo lievitare nella gente aspettative inappropriate, con la richiesta di sanare con improponibili atti d'imperio un problema che solo ai tribunali spetta affrontare. Ovvio comunque che la delicatezza della situazione gli impone di seguire gli sviluppi della spinosissima controversia anche qui, da Bruxelles. Ritagliandosi qualche momento libero tra un colloquio e l'altro per consultarsi con i propri consiglieri (dal segretario generale Donato Marra al giurista Loris D'Ambrosio, pure loro in trasferta qui, al costituzionalista Salvatore Sechi dal Quirinale) per capire i potenziali sbocchi dei ricorsi. E per valutare, studiando i precedenti, la praticabilità di alternative diverse. Che al momento, però, sembrano tutte al limite della praticabilità giuridica.
© 2010 Corriere della Sera. Tutti i diritti riservati