
Sono morti che camminano. E gente alla quale hanno strappato anche l'anima e che sopravvive sperando in un miracolo. Soffrono d'insonnia, hanno frequenti incubi, la loro mente è affollata di pensieri di morte e sensi di colpa. Sono "extracomunitari" sopravvissuti alle torture, alle traversate del deserto e del mare, che in questi anni hanno raggiunto Lampedusa o altri approdi siciliani.
I loro drammi, le loro storie, le foto con le ferite provocate dai loro carnefici in Nigeria, in Libia, in Somalia, nello Sri Lanka, sono raccolti nei dossier degli ambulatori siciliani che, tra mille difficoltà, sono riusciti a farli parlare. Queste persone sono state incarcerate, incatenate, fustigate. Le donne, violentate davanti ai loro bambini che spesso sono morti senza che loro potessero aiutarli. Un inferno, un calvario che ancora continua. Ecco le loro storie.
O. S. è nata in Nigeria, a Uga, nel 1985, ed è giunta a Lampedusa l'8 settembre del 2008. Quando è arrivata sembrava un fantasma. Non era soltanto stremata dal lungo viaggio in mare su un gommone con altri 40 disperati. Non ragionava per quel che aveva vissuto. «Sono fuggita dalla Nigeria perché ero minacciata dalla famiglia di un uomo che era stato ucciso da mio marito, che era fuggito e di cui non ho avuto mai più alcuna notizia. Così nell'agosto del 2008 ho lasciato la Nigeria insieme a mia figlia di 4 anni. Durante il tragitto nel deserto tra il Niger e la Libia sono stata fermata da un gruppo di uomini che mi hanno aggredita e stuprata ripetutamente, davanti a mia figlia. Durante la violenza mi hanno anche ferita con un coltello». «La paziente - scrive il medico nella sua cartella - non riesce a descrivere gli eventi legati alla morte della figlia nel deserto: ricorda che si era ammalata durante il cammino e che è stata picchiata dagli stupratori poiché piangeva e dava "fastidio"». «Ho paura di avere contratto malattie veneree e di non potere avere più figli», dice ancora la donna. «La Sig.ra O. S. -di nuovo la cartella clinica - presenta importanti conseguenze dei traumi psicologici e fisici subiti. La morte traumatica della piccola figlia durante la fuga aggrava la condizione di smarrimento e di terrore in cui versa tuttora la paziente. O. S. soffre di insonnia, mutismo, inappetenza, disfagia; tale sintomatologia clinica è accompagnata da ricorrenti pensieri di morte, di inutilità
della propria esistenza, di colpa nei confronti dei propri familiari rimasti nel loro paese».
D. T. B. è nato in Eritrea il 14/7/1974. Nel giugno del 2000, alla fine della guerra contro l'Etiopia (iniziata nell'aprile del 1998, e durante la quale aveva combattuto) è stato arrestato. «Sono stato spogliato dei miei vestiti e rinchiuso in una stanza piccola e molto calda, non c'era luce né servizi igienici. L'isolamento è durato 5 giorni, poi mi hanno condotto in un'altrastanza
dove si trovavano 4 militari che mi hanno messo la testa dentro un recipiente colmo di escrementi umani minacciandomi di morte. Questo trattamento si è ripetuto ogni 3 giorni, io ero sempre in isolamento e all'oscuro di quale fosse l'accusa. Non ricordo per quanto tempo sia durata questa prigionia, in quei giorni non riuscivo a capire nulla, avevo delle infezioni provocate dagli escrementi nella gola e sono diventato quasi cieco. Sono stato poi condotto in una stanza sotto terra dove dei militari mi hanno fatto firmare un foglio su cui mi hanno fatto confessare di essere una spia etiope. Mi hanno colpito ripetutamente con un bastone al volto, al naso, sulla testa, anche con un sacchetto di sabbia pieno di pietre». «I mesi di reclusione successivi vengono definiti dal paziente come infernali- scrive il medico nella cartella di D. T. B. -. Il detenuto è riuscito a fuggire dalla prigione il giorno in cui per la prima volta i detenuti erano stati condotti fuori cella; egli stesso considera miracoloso il fatto di non essere stato catturato e ucciso. A piedi ha poi raggiunto il confine con il Sudan, e da lì è giunto fino a Karthoum (15/10/2000), dove si è fermato per circa 1 anno prima di partire per la Libia con la moglie. Qui la moglie, al 3° mese digravidanza, è stata catturata dalle autorità libiche (verosimilmente a causa della croce tatuata sulla fronte) e da allora non se ne hanno più notizie. D. T. B è giunto in Italia il 28/10/2003».
S. J. è nata ad Harare, nello Zimbawe il primo luglio del 1986. «Mia madre era nigeriana e all'età di 6 anni ci siamo trasferiti con parte della famiglia in Nigeria, nel suo villaggio natale. Da allora non ho avuto più notizie di mio padre, che era un militare dello Zimbawe. Ho avuto una bambina dalla relazione con un uomo politico dell'etnia Shakiri, appartenente al People Democratic Party. Il nostro matrimonio è stato violentemente ostacolato dalla famiglia del mio ragazzo, in quanto io appartenevo ad un'altra etnia, quella degli Urobo. Fui costretta a fuggire in un altro villaggio, durante la gravidanza, perché minacciata dai familiari del mio ragazzo, ma fui ritrovata e sequestrata. Sono stata tenuta prigioniera per circa un mese: durante i giorni di prigionia sono stata picchiata e maltrattata quotidianamente, perché volevano sapere dove s'era nascosto loro figlio, ma io non lo sapevo. Sono poi riuscita a fuggire e ho lasciato il mio Paese.
Sono rimasta ad Agadez, in Niger, per circa un anno, lavorando in un mercato, ma sono dovuta scappare di nuovo perché mi volevano costringere a prostituirmi. Ho raggiunto Dukru, dove sono stata sequestrata da militari e stuprata più volte, poi mi hanno portato in Libia a bordo di un camion. Mi hanno abbandonata per strada, dove sono stata intercettata dalla polizia libica. E qui nuovamente violentata e arrestata perché non avevo documenti. Dopo una settimana di carcere a Tripoli mi hanno mandata a lavorare come cuoca per il proprietario di una delle navi che trasportano clandestini. Dopo due mesi di lavoro mi sono imbarcata su un gommone e ho raggiunto Lampedusa». Nel 2008 S. J. ha avuto accolta la sua richiesta di asilo politico. Le sue condizioni stanno migliorando.
A. H. è nato in Liberia il 6/2/1958. Ha il volto sfigurato, deturpato dalla soda caustica che i suoi carcerieri gli hanno tirato in faccia. «Sono stato catturato nel giugno dei 1998 nella capitale liberiana dalla Atu (Ante Terrorist Unit) peraver distribuito e affisso poster riguardanti gli abusi dei diritti umanitari nel mio paese. Fui accusato di danneggiare la sicurezza dello state e dopo 5 giorni di interrogatori e di sevizie sono stato colpito al volto con una sostanza liquida caustica. Ho ripreso conoscenza dopo qualche giorno nell'ospedale S. Joseph di Monrovia, dove sono rimasto ricoverato per circa 7 mesi, sottoponendomi a diversi interventi chirurgici ricostruttivi. Nel luglio 2002, dopo aver militato nel Lurd (Liberia United for Restoration of Democracy), sono arrestato nuovamente dai militari e tenuto prigioniero fino al 2 giugno del 2003, data in cui sono riuscito a scappare durante un controllo sanitario in ospedale. I miei familiari ed alcuni amici hanno poi raccolto del denaro e sono riuscito a raggiungere l'Italia, attraverso la Libia, il 15 giugno del 2007».
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