
09/09/10
Il Foglio
Si fanno più stretti i vincoli, le normative, le leggi per disciplinare gli "altri", i diversi, i lontani, gli ospiti indesiderati, lo straniero insomma. Respingere, espellere, estradare sono parole d'ordine senza appello. Quale più quale meno, gli stati nazionali rivelano, anche in questi comportamenti, la loro insufficienza storica, la loro incapacità a proporsi come sedi e strumenti della crescita dell'individuo, della personalità, dell'uomo.
Deperisce il significato laico dello stato, si diffonde un fondamentalismo nazionalista che promuove un falso e pericoloso concetto dell'identità. Il mio fruttarolo è bengalese, credo di averne già parlato, su questa colonnina. Per anni è stato utilissimo, perché non chiudeva mai, nemmeno per Natale o per ferragosto. Con gli invitati in arrivo, all'ultimo momento ti accorgevi che in casa mancavano i limoni o l'acqua tonica. Bastava scendere da lui e l'acqua tonica o i limoni tornavano sulla tavola. Per la verità, negli ultimi tempi, mia moglie gli preferì un altro fruttatolo, anche questo poco distante, egiziano. Diceva che aveva verdura migliore, il bengalese era diventato arruffone e sciatto. Ma qualche giorno fa mi sono fermato di nuovo al suo chiosco per comperare della frutta.
Lui mi ha chiesto: "Come sta tua moglie?" Ho dovuto dirgli che mia moglie è morta. Lui, con il volto rattristato, ha risposto che gli dispiaceva molto, perché mia moglie era "signora molto brava e buona", la ricordava benissimo. Per corrispondere alla sua gentilezza gli ho chiesto come stesse sua moglie. Giovane, dal bel volto asiatico, veniva al chiosco indossando i leggeri sgargianti abiti del suo paese, che le donavano. La ricordavo anche incinta, ebbero infatti un bambino, nato a Roma.
Il fruttarolo mi ha annunciato, tutto contento, che era appena tornata dall'America: "Per fare il figlio, nostro secondo figlio". Perché in America? "Perché così bambino - ha replicato lui con il suo largo sorriso - avrà anche passaporto americano", oltre a quello bengalese e l'italiano. La risposta mi ha sorpreso. L'uomo, dunque, riteneva che garantendogli il passaporto statunitense avrebbe procurato al bimbo non ancora nato uno strumento in più per migliorare la sua vita. Davvero perspicace e lungimirante, il mio fruttarolo. Sicuramente, con tre passaporti in tasca, il piccolo bengalese sarà avvantaggiato rispetto a un bambino che ne abbia uno solo, fosse anche l'italiano.
Il loro punto di vista
Quando si discute di immigrati, di extracomunitari, ecc., non si pone mente a ciò che loro desiderano, sperano, progettano per sé e i loro famigliari. Non ci si abbassa al loro punto di vista. Il bambino nato in America, secondo il mio fruttarolo, avrà più chance per quel che riguarda la qualità della vita. E io aggiungo: avrà anche un tassello in più su cui costruire, migliorare, affinare la propria identità. Perché, io ne sono sicuro, l'identità è storica. cresce e si sviluppa nello srotolarsi degli eventi, delle occasioni, degli stili di vita incontrati, adottati, acquisiti, interiorizzati. L'identità, sono sicuro, è inclusiva, non esclusiva: non la si definisce per sottrazione ma per aggiunte, stratificazioni, "meticciamenti". L'identità è un lento, forse infinito di svelarsi di noi a noi stessi, proprio attraverso l'impastarsi con l'altro, con l'occasione, con l'evento. Ogni apprendimento è rottura di una crosta e apertura verso qualcosa che ci è, fino a un secondo prima, ignoto.
San Tommaso diceva - e aveva ragione - che l'individuo è ineffabile, cioè non è mai del tutto dispiegato, ha in sé infinite, sconosciute possibilità: le occasioni, gli eventi, gli incontri le portano in superficie, le rendono esplicite. A noi appare solo l'identità dell'immediato presente. Se la conoscessimo nella sua (irraggiungibile?) completezza, la nostra vicenda individuale non richiederebbe l'ulteriore farsi, l'ulteriore svolgersi...
Penso che le istituzioni, lo stato abbiano come compito storico quello di favorire il dispiegarsi, l'arricchimento della personalità del singolo. Mai lo stato dovrebbe sottrarsi a questo dovere. In un mondo destinato fatalmente alla multiculturalità, che è insostituibile portato e perno della globalizzazione, certamente si presenta il non facile problema di mettere a punto le leggi, le forme istituzionali attraverso le quali le diverse, e varie, individualità, personalità, identità di ciascun uomo e donna possano aprirsi e plasmarsi appieno, col minor impatto possibile di avversità e ostacoli. Questo è il senso, a mio avviso, della laicità delle istituzioni. Quando queste si dimostrino inadempienti, occorrerà domandarsi perché ciò accade, sforzarsi perché cambino. È troppo, pensare che gli stati nazionali non abbiano più la dimensione etica per soddisfare al compito imposto dai tempi? È troppo chiamare fondamentalisti, non laici, quanti si oppongono al processo?
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