
Quando si va in guerra, si sa quando si inizia, non quando si finisce. E anche se si finisce, non si sa ciò che ci si lascia alle spalle. Quattro giorni dopo il ritiro delle truppe Usa il nuovo Iraq scivola verso un conflitto interconfessionale. I gravi attentati di ieri sono l'ultimo campanello d'allarme di una lotta di poteri tra i politici iracheni. In prima linea ci sono le divisioni tra gli sciiti, maggioranza del Paese e del governo, e i sunniti, un tempo al comando sotto Saddam Hussein, e ora ai margini. Ma un'altra importante battaglia si combatte sulla seconda linea. Ed è giocata dalle potenze regionali che mirano a estendere la loro influenza sull'Iraq. L'Iran sostiene da tempo il governo sciita iracheno. Oggi ancora di più. Perché rischia di perdere un alleato strategico, la Siria. Il cui regime, comandato dalla minoranza alawita (vicina agli sciiti), potrebbe essere travolto dalla rivolta della maggioranza sunnita. L'Arabia Saudita, potenza smunta, non vuole che Teheran metta le mani sull'Iraq. E sta facendo il possibile perché non avvenga. Sullo sfondo la Turchia, che sostiene l'enclave turcomanna a Kirkuk, e i suoi rivali, i curdi iracheni, che spingono per un'autonomia che somiglia alla secessione. Ironia della sorte, per la prima volta da 20 anni la produzione petrolifera irachena ha superato i 3 milioni di barili al giorno. Potrebbe fare di più. Divisioni permettendo.
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