
Di chi è la colpa? La colpa è dello spread. Per gli italiani che vogliono trovare un capro espiatorio all'austerità che li piega, la spiegazione ha un sapore quasi beffardo. Lo spread non si vede, non ha un'effigie da bruciare o un'ambasciata sotto cui dimostrare.
E l'autunno porta nuovi pesi. All'austerità imposta dallo spread (il Governo è solo un intermediario, e in questo caso "l'ambasciator porta pena") si aggiunge il caro-petrolio (caro-elettricità, caro-gas, caro-carburanti), del quale però si può far carico all'esecutivo solo in un'ottica di "piove, governo ladro!". Ma in ogni caso questi rincari - dalla benzina alle tasse - sottraggono potere d'acquisto e rinfocolano l'inflazione. Il tasso di aumento del costo della vita è già in agosto al 3,2%, e l'"inflazione di fondo", cioè quella calcolata al netto di alimentari ed energia, è stimata al 2,1 per cento.
Ma se l'inflazione di fondo è utile per guardare alle tendenze, perché sfronda il paniere dai suoi elementi più volatili, non consola molto il comune cittadino, che deve pur mangiare e scaldarsi e andare dal punto A al punto B con mezzi diversi dal cavallo di San Francesco. E il cittadino già sente che l'inflazione morde ancora di più rispetto al dato complessivo: la percezione dell'aumento dei prezzi si forma rispetto ai beni e ai servizi di più frequente acquisto, e questi - calcola l'Istat - sono aumentati sull'anno del 4,3 per cento.
Alle soglie dell'autunno dobbiamo quindi aspettarci un tasso d'inflazione ancora più elevato, trainato dagli aumenti tariffari e dai prezzi alla pompa? Abbiamo evitato - per ora - l'aumento dell'Iva, grazie all'approvazione della spending review, e dobbiamo tirare un sospiro di sollievo perché quell'aumento, in queste circostanze - con un'inflazione percepita già oggi superiore al 4% e retribuzioni ferme all'1,5% - sarebbe stato esiziale. Ma l'impatto - evitato - dell'Iva sta per cedere il passo all'impatto tariffario e a quello di Imu e addizionali Irpef.
Fino a che punto è tollerabile un ulteriore aumento del tasso di inflazione?
In circostanze normali un divario ampio come quello che si prospetta fra inflazione e salari desterebbe preoccupazioni per la tenuta del tessuto sociale. Ma le circostanze non sono normali. Sappiamo che il ciclo avverso fa parte di un malessere continentale, che la stagnazione dura da tempo e ingenera frustrazione da un lato e rassegnazione dall'altro, che il "nemico", come si diceva all'inizio, è elusivo e invisibile, che proteste localizzate (Ilva, Sulcis...) si danno e si daranno, ma quelle generalizzate sono più difficili da organizzare, perché non hanno bersagli facilmente identificabili.
Ma tutto questo non vuol dire che la sofferenza non ci sia e, quel che è più preoccupante, non si accumuli. La rassegnazione non è altro che protesta rimandata al futuro, messa in un cassetto che un giorno sarà pieno e traboccherà in forme che potranno essere pericolose. Dove potremo trovare la salvezza?
Il pessimismo ha molte frecce al suo arco, ma ci sono anche ragioni di speranza, scenari possibili di una via d'uscita. Almeno tre di questi scenari portano qualche freccia nella faretra dell'ottimismo.
Da una parte, l'incerto e claudicante passo della risposta europea alla crisi si è fatto recentemente più fermo. La disperante lentezza delle decisioni sta facendo posto a una maggiore consapevolezza dei rischi: da quando Mario Draghi ha affermato - con una ben calcolata "fuga in avanti" - che la Bce farà di tutto per tenere la moneta unica sulla retta via, l'atmosfera è cambiata. La cancelliera Angela Merkel si è schierata con Draghi, la Bundesbank è isolata, e perfino il bubbone Grecia potrebbe essere sgonfiato in modi meno traumatici. Un miglioramento dell'atmosfera farebbe molto per far tornare quella fiducia che oggi scoraggia le decisioni di spesa di famiglie e imprese.
Dall'altra parte, gli Stati Uniti e la Cina - le due maggiori economie mondiali - hanno la possibilità (e la probabilità) di accelerare il passo, dando così una spinta al ciclo internazionale.
E infine, più vicino a casa nostra, non bisogna dimenticare che il sistema produttivo è un organo vivo, capace di reagire e non solo di subire. Le imprese italiane non hanno solo subìto la crisi; hanno anche reagito, e anche se questi cambiamenti sono "sotto pelle", non immediatamente visibili, sono comunque reali e stanno lentamente migliorando la competitività di fondo del sistema.
© 2012 Il Sole 24 Ore. Tutti i diritti riservati