
«Finché il Pd si identifica in Bersani, si va avanti con più forza nel tentativo di stanare Grillo e poi si vede», dice Miguel Gotor, consigliere strettissimo del leader, alla vigilia della «conta» che domani andrà in scena alla Direzione nazionale. Ed è in quel «si vede» che si nascondono tutti i problemi del Pd, a partire dall’interrogativo che si fa sempre più incalzante: e cioè, anche dopo un mandato pieno della Direzione, cosa si farà se Bersani non potendo dare garanzie su una maggioranza assicurata in Senato non ricevesse l’incarico? Oppure se una figura diversa da lui, magari un tecnico super partes, fosse in grado di avere i voti dei grillini in Parlamento come si comporterà il Pd?
Tutti i big formalmente ancora appoggiano Bersani e il suo tentativo di dar vita ad un esecutivo di minoranza su un programma ristretto di riforme. Renzi ha perfino rinviato una riunione dei suoi 54 parlamentari prevista oggi a Firenze per non dar l’idea di costruire una fronda interna e domani anzi si presenterà in Direzione. Quindi pur divisi sul «dopo», tutti, da Veltroni a Franceschini, da D’Alema alla Bindi, a Fioroni, lo sosterranno. Qualcuno di loro però a una condizione: se il segretario non porrà l’aut aut «o con me o elezioni», ma sfumerà l’opzione B in «si vedrà», vedrà appoggiato il suo tentativo all’unanimità. Viceversa, nessuno assicura che il dibattito non si accenda per usare un eufemismo. Si spiegano solo così alcune forzature lessicali di personaggi altrimenti molto cauti come Enrico Letta: che si spinge a dire «quando riceveremo l’incarico presenteremo nuove norme anticorruzione, nuova legge elettorale con diminuzioni dei parlamentari, ma se i grillini si trincereranno dietro l’alibi della sfiducia, nulla di questo verrà realizzato». Come a dare l’idea che almeno l’incarico a Bersani bisogna portarlo a casa; anche se Letta è sulla linea del «no a una soluzione greca senza prima aver approvato riforme fondamentali, come la legge elettorale», come ha fatto dire l’altra sera ad un suo fedelissimo, Marco Meloni. E se il suo lealismo a Bersani, così come quello di Franceschini e dei suoi uomini, si ferma sulla diga del niente voto anticipato, è chiaro che le ricette divergono nel magico mondo del Pd. In queste ore l’attenzione di tutti è puntata sulle parole del capogruppo al Senato dei grillini Crimi: che ha aperto alla disponibilità di votare un governo non partitico, che assomiglia molto nei contorni al cosiddetto «governo del presidente» caldeggiato dai veltroniani. È la novità più significativa di ieri che già ha fatto entrare in fibrillazione le varie anime e lo stato maggiore.
Dovendo fotografare i diversi posizionamenti, allo stato degli atti, a dispetto di quanto pensano i vari Veltroni, Letta, Franceschini, ci sono i tanti bersaniani come Gotor e i giovani turchi come Fassina e Orfini, che affollano le fila dei gruppi parlamentari e che non vogliono saperne di dare i loro voti a qualsiasi governo sostenuto dal Pdl. Con una formula che potrebbe sembrare un’apertura, «non votiamo nessun governo che non abbia pure i voti di Grillo». In linea col segretario, anche D’Alema fa notare che «il Pd ha la maggioranza assoluta alla Camera, nessuna soluzione può prescindere dal Pd, quindi ha ragione Bersani». Il quale va ripetendo che «nessun governo con i voti del Pdl avrà i nostri voti», come a sgombrare il campo dall’inciucio con Berlusconi inviso a migliaia di militanti. Ma un ex Dc fa capire bene l’umore dei big: «Se Bersani, ormai bruciato, si assume l’onere di lasciare agli atti che Grillo dice no a tutto, ci fa un grande favore, perché ostacolare la sua missione generosa?». Ma anche i renziani sono sul piede di guerra: «Napolitano può affidare l’incarico a una personalità diversa da Bersani. Se altre forze saranno disponibili a sostenere personalità diverse». E se si votasse tra sei mesi Renzi sarebbe in campo.
© 2013 La Stampa. Tutti i diritti riservati