
Tra le conseguenze più sorprendenti di ciò che noi comunemente chiamiamo globalizzazione - vale a dire la diffusione in ogni parte del mondo di fenomeni e attività che un tempo avevano un carattere raro e singolare - vi è la banalizzazione del suicidio. Non mi riferisco alla allarmante serie di suicidi tra i dipendenti di Telecom France sulla quale i media internazionali si sono recentemente soffermati, e neppure all’alta percentuale di suicidi che abbiamo visto verificarsi nella Francia intera e che sembra essere all’incirca doppia di quella che si registra in Italia o in Inghilterra e superiore del 40% a quella di Germania e Stati Uniti. Entrambe hanno apparentemente origine in circostanze specifiche, anche se tutt’altro che facili da identificare: Telecom France non è certo la sola grande impresa che passa attraverso fasi di ristrutturazione e privatizzazione parziale né la Francia sembra oggi trasformarsi in modo diverso da come cambiano i suoi vicini.
Parlando di banalizzazione del suicidio, non mi riferisco all’atto di chi si toglie la vita in uno stato d’animo di carattere depressivo, ma a un tipo dilagante di suicidio di carattere, per così dire, affermativo.
Nelle aule scolastiche frequentate da un italiano della mia generazione alcuni decenni fa, l’episodio simbolico dell’eroismo, del sacrificio e del senso del dovere verso la propria patria era quello di Pietro Micca, il minatore piemontese che durante l’assedio di Torino da parte dei francesi nel 1706, per impedire l’irruzione dei soldati nemici nei corridoi sotterranei che davano accesso alla cittadella, fece saltare in aria se stesso assieme a un’enorme quantità di esplosivo. A Pietro Micca è stato dedicato un museo, vari monumenti e decine e decine di strade in tutta Italia. E tuttavia è probabile che ad un giovane di oggi quel nome riesca meno familiare di quanto non lo era un tempo.
Il gesto di togliersi la vita deliberatamente e consapevolmente in nome di un ideale superiore di natura patriottica, come fu il caso di Micca, o umanitaria, o religiosa, dovrebbe essere per definizione un fatto di natura eccezionale. Infatti non ha né in italiano né in altra lingua indo-europea un proprio nome. All’autore di un simile gesto diamo adesso l’appellativo di «kamikaze», prendendolo da quei piloti giapponesi che si scagliavano con i loro velivoli carichi di esplosivo sulle navi da guerra statunitensi. Nella tradizione giapponese esiste effettivamente il suicidio come monito o insegnamento. Tra i più spettacolari e famosi vi fu in tempi moderni il suicidio dello scrittore Mishima che, per protesta verso un’età e un Paese senza gloria, si diede pubblicamente la morte sul balcone di un edificio statale davanti a una folla radunata per l’occasione.
Ma oggi vi sono kamikaze ovunque e per i più diversi motivi: dagli attentatori delle torri gemelle ai giovani palestinesi, dai sunniti dell’Iraq ai taleban dell’Afghanistan o del Pakistan, dai curdi della Turchia ai ceceni della Russia o ad altri infiniti eroi del nulla. Migliaia e migliaia di Pietro Micca che si fanno saltare assieme a quintali di esplosivo per far sì che dei francesi immaginari non accedano a qualche immaginaria cittadella.
Credo che il limite estremo della banalizzazione del suicidio sia stato raggiunto con l’attentato compiuto giorni fa nel Belucistan e con le polemiche che vi hanno fatto seguito. Sulla finalità di questo nuovo episodio di morte vi sono, come sappiamo, interpretazioni diverse. Vi è chi lo mette a carico dell’oppressione che l’Iran eserciterebbe da tempo sulle popolazioni del Belucistan e sullo scoppio improvviso di un clamoroso atto di protesta; vi è chi vede in esso una fase del confronto politico in atto in Iran dopo le ultime elezioni parlamentari, dando così per scontato che un attentato suicida sia oggi una forma corrente di lotta politica. Ancor più sconcertante è la versione che ne danno le autorità iraniane, secondo cui l’attentato è il prodotto dell’azione dei servizi segreti americani (o forse pachistani su suggerimento americano) nel braccio di ferro che oppone l’Iran all’Occidente. L’attentatore sarebbe stato in questo caso reclutato per l’occasione, esattamente come si acquista un prodotto di cui si ha bisogno su un mercato di potenziali suicidi.
Gli attentati terroristici e l’immenso fiume di sangue che essi generano sono la via che la modernità ha scelto per proseguire le guerre del passato ed esprimere il proprio bisogno di violenza. L’apparente facilità con cui si reclutano gli attentatori suicidi ne è l’aspetto più inspiegabile e più inquietante.
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