
Sarà pure vecchio ma non prendiamolo per scemo l’uomo che ha fatto tremare l’Italia. Se parla, significa che ha il suo tornaconto. Se Totò Riina ha detto quello che ha detto, vuol far sapere che lui ancora c’è. E che vuole “entrare” - e non da comparsa - dentro il processo sulla trattativa fra Stato e mafia. È un avviso ai naviganti in puro stile corleonese: state attenti, so tutto, mi ricordo tutto, posso dire tutto.
Di ricatti il capo dei capi di Cosa Nostra se ne intende e ha colto quest’inizio del dibattimento di Palermo - in video conferenza non si è perso neanche un secondo delle tre udienze fin qui celebrate - per presentarsi sulla scena dopo un lungo silenzio. Dentro quelle sue frasi ci sono almeno tre messaggi. Il primo non ha nulla di misterioso. Senza giri di parole Riina informa, a proposito degli incontri con i carabinieri al tempo delle stragi, che “io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”.
Se da un punto di vista strettamente processuale questa è un’evidente conferma alle tesi dell’accusa, da un punto di vista storico il boss non ci rivela niente di nuovo o sconvolgente: in ogni trattativa fra Stato e mafia non è mai stata la mafia a intavolare negoziati ma al contrario sempre lo Stato italiano. Il secondo messaggio che ci consegna è molto più duro e anche inquietante per gli equilibri di Cosa Nostra.
Per la prima volta dopo più di 60 anni Totò Riina rompe il sodalizio con il suo complice di una vita, Bernardo Provenzano. Lo accusa di averlo “venduto” ai carabinieri (in combutta con l’ex sindaco Ciancimino) e smentisce la ricostruzione ufficiale dei reparti speciali dell’Arma (quelli del 1993) che in verità sapeva di raggiro già qualche giorno dopo la sua cattura.
L’affermazione di Riina non potrà non avere “conseguenze” nel mondo mafioso, quello che ha preso in eredità i destini di Cosa Nostra. Terzo messaggio: il vecchio boss che confessa la sua fede “andreottiana”. Annuncia a qualcuno che lui è sempre stato vicino al potere, che a quel potere è stato fedele e che lo è ancora nonostante “magistrati e politici che si sono coperti fra di loro... e scaricano ogni responsabilità sui mafiosi”.
Poi parla della scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino, della sua indisturbata latitanza (altro messaggio agli apparati polizieschi), di Giovanni Brusca che “non ha fatto tutto da solo” a Capaci. È un sasso lanciato nella palude. Vedremo se continuerà con i suoi giochetti. Intanto il direttore del carcere di Opera si è affrettato a relazionare su questa loquacità di Riina, sostenendo che “potrebbe avere un preciso significato quanto essere riconducibile a un deterioramento cognitivo legato all’età”. I medici legali assicurano che è lucidissimo. E così pure gli agenti penitenziari che hanno raccolto il suo sfogo. Una volta si diceva: i mafiosi non parlano e se parlano non sono mafiosi ma pazzi. Qualcuno ci vorrebbe far credere che si è improvvisamente rincoglionito anche Totò Riina? [3]
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