
Siccome ci si abitua sempre anche al peggio, e l’umanitarismo per l’umanitarismo non è il nostro forte, si rischia di abituarsi anche alla notizia che, con l’arrivo del primo vero caldo dell’estate, arriva anche il primo sciopero della fame dei detenuti contro le condizioni di degrado fuori da ogni norma e legge in cui sono costretti a vivere.
Ma è un’abitudine da non prendere, punto. Per cui è e resta una notizia, come ogni anno è una notizia, che i detenuti del secondo e terzo braccio di Regina Coeli, un carcere dove sono ammassati oltre mille detenuti su una capienza di circa 700, dove lavorano 460 agenti penitenziari quando la pianta organica ne prevede più di 600, debbano ricorrere a uno strumento così estremo, così urticante, per poter mettere all’attenzione del mondo di fuori, e della politica, la loro condizione.
E poiché la condizione non è solo la loro, proteste analoghe potrebbero iniziare a breve in molti altri dei duecento istituti di pena italiani. Di fuori, almeno nel mondo della politica, ci sono quasi solo i Radicali ad ascoltare. Ieri nel carcere romano sono entrati Marco Pannella e Rita Bernardini (l’altro giorno c’era stata il presidente della Camera Laura Boldrini).
Il problema delle carceri italiane non è una questione di umanitarismo, ma di civiltà giuridica e di decisione politica. Siamo un paese in cui il 42 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio. Di questi circa la metà risulta innocente, una volta celebrati i processi per la cui lunghezza media andiamo tristemente famosi. Ancor più triste è la contabilità mortuaria: dall’inizio dell’anno ci sono stati 90 decessi, di cui 29 suicidi, e sono ben 7 gli agenti penitenziari che si sono tolti la vita. Lo scorso 8 gennaio la Corte europea dei diritti dell’uomo ha richiamato l’Italia a uscire al più presto da questa situazione, valutabile come tortura. Al Senato è in via di conversione il decreto carceri che dovrebbe alleggerire la situazione. Il ministro Annamaria Cancellieri ha ribadito che l’amnistia “dal punto di vista tecnico, servirebbe eccome”, ma sa benissimo che è un problema politico. Così come è un problema politico la malattia della giustizia da cui tutto questo discende. Ma finché non si potrà parlare di durata dei processi, di abuso della carcerazione preventiva, e di tante altre cose ancora, la malattia non potrà guarire.