
Premesso che il suicidio è una fatto “unico” e che nessuno potrà mai spiegare perché una persona decide di togliersi la vita specie quando si trova in stato di detenzione e che le cause dei suicidi sono tante, c’è da riflettere sul suicidio in stato di detenzione. Riflessione e disquisizione scientifica che ha fatto nei giorni scorsi anche la neolaureata alla specialistica Vanessa Maria Vinci all’Università di Catania dopo anni di tirocinio e studio in un Istituto penitenziario. Il suicidio in carcere è spesso la causa più frequente della morte della popolazione detenuta. Gli studiosi della delicata materia Caglio e Piotti asseriscono che il suicidio del detenuto rappresenta “un atto di fuga”.
Questo luttuoso evento pone l’istituzione penitenziaria di fronte alla propria impotenza perché il detenuto è titolare solo della sua vita e pertanto mette in atto il gesto auto soppressivo per liberarsi dallo status di recluso. Asseriscono gli esperti che questi suicidi rappresentano una forma disperata e violenta di comunicazione.
Non trascorre giorno senza che si registri il preoccupante aumento dei tassi di suicidio negli “inferni” dei nostri luoghi di detenzione. La depressione e il suicidio contemperano l’abbandono di ogni speranza. Asserisce la scienza che ogni suicidio è “unico” e nessuno potrà mai spiegare fino in fondo perché una persona decide di togliersi la vita.
Riferiscono gli esperti che il suicidio rappresenta “una uscita attraverso la morte, il tentativo di tornare ad uno stato di normalità, un atto patologico di rigenerazione”. Il suicidio in carcere pone l’istituzione di fronte alla propria impotenza. Il detenuto è titolare soltanto della propria vita, pertanto col gesto auto soppressivo vuole riaffermare se stesso come essere umano. I suicidi in carcere rappresentano una forma disperata e violenta di comunicazione che non ha trovato risposta istituzionale.
Accade anche che il suicidio esprima un significato dimostrativo, infatti il recluso vedendosi dimenticato dalle istituzioni, dalla società civile e spesso anche dalla famiglia, decide di porre in essere la propria morte per suscitare senso di colpa negli altri. Da qui i suicidi ribelli con significato di vendetta ed estroversione dell’aggressività e i suicidi rinunciatari con significato di fuga ed introversione.
Il detenuto prende coscienza del crimine consumato facendo assumere al suicidio il significato di espiazione della colpa con relativo castigo. Durante la detenzione, la personalità del soggetto subisce una “disorganizzazione” rilevante in quanto il soggetto è privato di tutti gli status che avevano caratterizzato la sua vita all’esterno.
Il Comitato Nazionale per la Bioetica, ha chiesto al Ministero della Giustizia di elaborare un piano di azione nazionale per la prevenzione dei suicidi in carcere, attraverso azioni dirette non tanto alla selezione dei soggetti a rischio, quanto al tempestivo riconoscimento e intervento su tutti i soggetti a rischio. E c’è da tenere in grande considerazione il fatto che l’impatto con il carcere nei primi periodi di detenzione e il sovraffollamento senza un servizio immediato e permanente di ascolto, rendono difficile assicurare interventi efficaci ed immediati. Sull’emergenza carceri è intervenuto anche il Presidente della Repubblica dichiarando che il tasso dei suicidi è altissimo e che la qualità della vita è indegna di un paese civile: oltre 68mila detenuti rinchiusi in edifici destinati a non più di 45milapersone. Pertanto fra i compiti dell’amministrazione penitenziaria rientra anche quello di “contenere il disagio esistenziale dei soggetti privati dalla libertà personale e di prevenire il compimento di atti auto aggressivi”.