
Non un “indiscriminato svuota-carceri”. Così viene definita la nuova proposta di legge in materia di misure detentive depositata dai deputati del Partito Democratico, di cui il primo firmatario è Donatella Ferranti, Presidente della Commissione di Giustizia che domani inizierà l’iter.
La novità consiste nel prevedere che il giudice della cognizione nel pronunciare la condanna per reati puniti con pene detentive non superiori a quattro anni possa stabilire che, in luogo della detenzione carceraria, la reclusione o l’arresto siano eseguiti presso l’abitazione del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, anche per fasce orarie o per giorni della settimana, in misura non inferiore a quindici giorni e non superiore a quattro anni, nel caso di delitto, ovvero non inferiore a cinque giorni e non superiore a tre anni, nel caso di contravvenzioni.
Si tratterebbe di un’eventuale modifica al testo già approvato dalla Camera nella passata legislatura il 4 dicembre 2012. Modifica che con le nuove pene previste mira “seppur in parte, evitando il carcere a chi del carcere non abbia bisogno per finalità retributive ed educative, ad ovviare alla drammaticità del problema del sovraffollamento carcerario di cui soffre il nostro sistema penitenziario”.
In sintesi, sono le due le modifiche di maggior rilievo che vengono richieste, ovvero: una pena detentiva non carceraria in via alternativa alla pena detentiva principale, un’unica concessione della sospensione del processo con messa alla prova per evitare l’uso strumentale di essa e, che in caso di revoca o esito negativo, il periodo della messa alla prova compiuto dall’imputato venga parametrato in maniera più garantista. Si rifanno all’art. 27 della Costituzione i firmatari della proposta, secondo il quale deve essere “bandito ogni trattamento disumano e crudele, escludendo dalla pena ogni afflizione che non sia inscindibilmente connessa alla restrizione della libertà personale”.
Il carcere dovrebbe quindi essere considerato un’estrema ratio a cui ricorrere in caso di inefficienza delle altre sanzioni, in modo tale che il condannato non debba più “subire l’inadeguatezza del sistema penitenziario” e possa finalmente appellarsi a quel diritto e principio di rieducazione ed umanità.
“Si tratta di un primo passo di avvicinamento a quei sistemi penali, specialmente anglosassoni - scrivono nell’illustrazione relativa alla proposta di legge i deputati del Pd - dove la pena si modula ogni volta sulle reali e concrete esigenze rieducative del condannato, senza mai perdere di vista le valenze retributive e preventive che pena deve comunque sempre mantenere”.
Pare che l’applicazione della pena non sia automatica e scontata, ma che si applichi quando preventivamente accertata una prognosi negativa di pericolosità del condannato. Verranno utilizzati adeguati strumenti di controllo, tra cui i braccialetti elettronici saranno i principali, ma non gli unici. Si è poi intervenuti sul luogo dove può essere espiata la detenzione.
Sono stati previsti i luoghi pubblici o privati di cura, assistenza e accoglienza sennonché un nuovo istituto della messa alla prova. Quest’ultimo, tipico del processo minorile viene concesso anche nel processo penale per adulti in relazione a reati di minor gravità. Se nel processo minorile però la messa alla prova è concessa dal giudice, in questo caso va invece richiesta direttamente dall’imputato.
Come si spiega nella relazione illustrati va, l’istituto di messa alla prova “offre ai condannati per reati di minore allarme sociale un percorso di reinserimento alternativo e, al contempo, svolge una funzione deflativa dei procedimenti penali in quanto è previsto che l’esito positivo della messa alla prova estingua il reato con sentenza pronunciata dal giudice”.
Ad ogni modo, sarebbe previsto un puntuale e cadenzato controllo, da parte del giudice, della pericolosità del soggetto, a seguito del quale potrebbe anche essere ritirato il diritto della messa alla prova. Inoltre si regolamenta che l’istituto predisposto per la messa alla prova conceda al condannato “la prestazione di un lavoro di pubblica utilità nonché condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose derivanti dal reato”.
La prestazione lavorativa prevista è da intendersi priva di retribuzione, non inferiore alla durata di 30 giorni e di pura utilità sociale. Ciò non deve però pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio e di famiglia dell’imputato, non superando pertanto una durata di 8 ore. Infine, secondo quanto riportato nella proposta di legge “un principio fondamentale è quello secondo cui, in caso di revoca ovvero di esito negativo della prova, l’istanza di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato non può essere riproposta”. Questo proverebbe per un futuro che il soggetto recidivo non è meritevole di misure alternative che rappresenterebbero comunque un beneficio. [3]
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