
Nel mentre si discute del decreto per ridurre il sovraffollamento nelle carceri non si arresta una triste sequenza di dolore. Contiamo quattro suicidi solo nelle carceri campane nell’ultimo mese. Quattro storie diverse con un destino comune, destinate a finire, nel migliore dei casi, tra le brevi di cronaca.
Il 31 maggio si è tolto la vita un detenuto straniero nel carcere di Poggioreale, 2.700 presenze su una capienza di 1.400 posti. Il 19 giugno, nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Secondigliano, si è tolto la vita un sofferente psichico di 29 anni. Il 20 il suicidio di Luigi D., di 38 anni, di nuovo a Poggioreale. Poche notti fa un altro detenuto si è tolto la vita nel carcere di Secondigliano.
Senza retorica, con il rispetto che richiede il dolore, dovremmo davvero chiederci se ci troviamo di fronte ad un destino cinico e baro o se forse non vi è una responsabilità pubblica e politica per tutto questo? Perché si tratta di persone per le quali era presumibile che l’impatto con il carcere e le condizioni detentive determinassero condizioni di stress e di vulnerabilità.
Perché la costrizione in una cella 22 ore su 24, la condivisione di spazi angusti e in precarie condizioni igieniche con altre persone, l’assenza di spazi di socialità e di relazioni umane, la mancanza assoluta di momenti di privacy, determina una privazione di identità che ferisce anche la persona più strutturata. Se poi chi entra in carcere ha già un problema psichico, la sorte che l’attende non è quella della cura.
La deputata Luisa Bossa ha segnalato in un’interrogazione parlamentare, presentata dopo una visita di Mario Barone di Antigone, che a Poggioreale ci sarebbe una sorta di “reparto psichiatrico” con detenuti con problemi specifici di carattere psichico ristretti in isolamento, senza assistenza medica continuata e in contrasto con i principi dell’ordinamento penitenziario e con le stesse circolari in materia emesse dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ma è una condizione diffusa in tutte le carceri del nostro Paese, come testimoniano, più di recente, le sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Quando, nel gennaio del 2010 l’allora ministro della Giustizia Alfano proclamò lo stato di emergenza nelle carceri, annunciando un ambizioso e costoso piano straordinario di edilizia penitenziaria che avrebbe consentito di risolvere il problema del sovraffollamento, vi erano circa 20 mila detenuti in più della capienza ufficiale. Sono trascorsi oltre tre anni e ben 219 suicidi. Ma l’emergenza è oggi ancora tutta lì, con gli stessi identici numeri di ieri. Perché non sono le parole a fermare la morte. Oggi le misure contenute nel decreto legge che affronta l’emergenza carceri consentiranno, a chi è condannato ad una pena inferiore a due anni, di ottenere una pena alternativa, amplieranno la possibilità (per pochi casi) di essere condannati ai lavori socialmente utili in luogo della pena detentiva, estenderanno lo spazio di applicazione delle misure alternative. In base alle stime dello stesso ministro, questo provvedimento consentirà di ridurre, nei prossimi due anni, di circa 6000 detenuti in meno. Il ministro, inoltre, ha promesso 5000 nuovi posti per l’anno prossimo e altri 5000 entro il 2016, in base al piano carceri approvato nel 2010. Fra tre anni, dunque, se tutto va bene, avremo ancora 5 mila detenuti in più, ma, garantiti i profitti delle imprese edilizie, potremmo parlare allora di ordinario affollamento e non più di emergenza. E nel frattempo?
Nel frattempo si muore e si sta male. Tutto questo non dipende solo dal sovraffollamento. Sono due i fattori determinanti. Da un lato le politiche penali hanno assunto un ruolo dominante nella scena politica, arrivando nei fatti a condurre in carcere non tanto esponenti della criminalità organizzata, ma migliaia di immigrati e tossicodipendenti, sanzionando con pene molto alte reati di minore gravità. Dall’altro, nelle carceri si è progressivamente affermata, tranne rare eccezioni, una cultura materiale quotidiana fatta di inumanità, abbandono e degrado.
Fare qualcosa per le carceri non significa limitarsi ad approvare qualche provvedimento di riforma, ma mettere al centro dell’azione politica i temi della libertà e della tutela dei diritti fondamentali, della depenalizzazione, dell’abrogazione delle norme punitive per i migranti e della fine di politiche proibizioniste in tema di sostanze stupefacenti. Non sono questioni che riguardano i detenuti, ma tutti i cittadini. La nostra sicurezza non dipende dal numero di persone che sono detenute, ma dai diritti e le libertà che ci sono garantiti. Ci sono vite che attendono invano e ci sono diritti che non aspettano oltre. [3]
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