
Sovraffollamento, diminuzione degli spazi a disposizione dei detenuti, drastica riduzione delle risorse. Sono i problemi che affliggono il sistema penitenziario. È quanto emerge da una ricerca condotta dalla Fondazione Michelacci. Secondo la ricerca, la popolazione detenuta in Italia ha raggiunto cifre senza precedenti, ben superiori alle oltre 61mila presenze del luglio 2006, data dell’ultimo provvedimento di indulto.
Al 31 marzo la popolazione detenuta è pari a 65.831 unità: 4.800 in più del giugno 2006. Alla dichiarazione dello stato di emergenza per il sovraffollamento carcerario, proclamato il 13 gennaio 2010, nelle carceri italiane c’erano 64.791 persone, a fronte di una capienza di 44.073, con un tasso di affollamento del 147 per cento (147 detenuti ogni 100 posti). Dal 31 dicembre 2009 al 31 marzo 2013 la capienza del sistema penitenziario nazionale è passata da 44.073 a 47.045 posti, registrando così ufficialmente un aumento di 3.000 posti, pari ad una crescita di oltre il 6 per cento.
È l’associazione “Antigone” a richiamare l’attenzione sulla progressiva riduzione delle risorse. Nel 2007, con una presenza media giornaliera di 44.587 detenuti, il bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ammontava a quasi 3 milioni e 100mila euro. Nel 2011, a fronte di una presenza media giornaliera di 67.174 detenuti, il bilancio è sceso a poco più di 2 milioni e 760mila euro, con un taglio del 10,6 per cento.
I costi del personale sono calati solo del 5,3 per cento, quelli per gli investimenti (edilizia penitenziaria, acquisizione di mezzi di trasporto, di beni, macchine ed attrezzature, etc.) del 38,6 per cento; quelli per il mantenimento, l’assistenza, la rieducazione ed il trasporto detenuti, addirittura del 63,6 per cento. Nel primo semestre 2012 a lavorare sono stati 13.278 detenuti, meno di un quinto del totale dei reclusi e comunque una cifra assai inferiore rispetto al numero dei condannati (che al 30 giugno erano 38.771). È la percentuale più bassa dal 1991, conseguenza dei drastici tagli del budget previsto nel bilancio del Dap per le retribuzioni dei detenuti che negli ultimi anni si è ridotto del 71 per cento: dagli 11 milioni di euro del 2010 si è passati ai circa 3 del 2013.
Una ricercatrice, Catia Ferrieri, per conto dell’Università di Perugia, ha realizzato uno studio sulle condizioni dei detenuti disabili e dei reparti che li accolgono. 210 i detenuti disabili presenti negli istituti penitenziari italiani: 84 quelli che ha potuto prendere in esame la ricerca. Dei 416 istituti penitenziari italiani, infatti, solo 14 hanno risposto al questionario, inviato dalla ricercatrice a tutte le regioni; la ricerca così si è concentrata su 84 detenuti disabili rilevati in queste strutture. “Una ricerca molto faticosa”, spiega Ferrieri, “nonostante la grande disponibilità delle amministrazioni, che però hanno tempi di risposta molto lunghi e non sempre disponevano dei dati che servivano alla mia indagine. Tante amministrazioni poi non hanno risposto, quindi i dati sono parziali, perché non riguardano la totalità delle regioni italiane, ma solo le 10 che hanno risposto al questionario: precisamente, Umbria, Piemonte, Liguria, Calabria, Campania, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Valle d’Aosta, Lombardia e Veneto”.
Le presenze: la regione con il maggior numero di detenuti disabili è la Liguria, con 44 presenze tra la casa circondariale di Genova (40) e quella di Sanremo (4). Seguono la Calabria, con 19 presenze tra Castrovillari e Reggio Calabria e la Campania, con 7 detenuti disabili.
Il 79,3 per cento dei detenuti disabili è di sesso maschile. Il 35,7 per cento ha un età compresa tra i 40-50 anni; il 20,2 per cento tra i 50-60 anni, il 15,4 per cento tra i 30 e i 40, il 5,9 per cento ha più di 70 anni. Il 40,4 per cento è celibe, mentre il 41,6 per cento è coniugato, il 7,1 per cento è separato o divorziato. Circa la metà dei detenuti disabili ha figli cittadinanza, istruzione, formazione. I detenuti disabili sono in gran parte italiani (92,8 per cento), circa la metà ha un diploma di scuola media inferiore, il 21,4 per cento ha la licenza elementare, il 14,2 per cento è diplomato alla scuola superiore, il 7,14 per cento è laureato. Il 61,9 per cento non ha seguito corsi di formazione né prima dell’ingresso nell’istituto penitenziario, né durante l’attuale detenzione. Tipologia di detenzione e di reparto: il 51,1 per cento dei detenuti disabili monitorati è sottoposto ad esecuzione penale, mentre il 27,3 per cento è in custodia cautelare. Per il 19 per cento il dato non è conosciuto. Il 47,6 per cento dei detenuti disabili monitorati è attualmente assegnato a reparti ordinari, a fronte del 14,2 per cento assegnati a reparti per disabili.
Tipologia di disabilità: il 79,7 per cento dei detenuti è affetto da una disabilità fisica, mentre l’11,9 per cento ha una disabilità sia fisica che psichica. Per il 3,5 per cento il dato non è conosciuto. Il 19 per cento dei soggetti ha una disabilità legata a una patologia immunitaria, il17,8 per cento è affetto da problemi legati all’apparato cardiocircolatorio, il 17,8 per cento, ha una disabilità legata all’apparato nervoso centrale.
Indennità e lavoro. Circa il 50 per cento dei detenuti usufruisce attualmente di una indennità di disabilità erogata dall’Inps o da altri enti, mentre il 38 per cento non ne usufruisce. Per quanto riguarda il lavoro, il 96,4 per cento dei detenuti disabili monitorati non è inserito in una attività all’interno dell’istituto penitenziario. Un esempio isolato e positivo è quello della Casa Circondariale di Reggio Calabria, dove i detenuti disabili sono inseriti nell’attività di lavanderia e di lavoro all’esterno dell’istituto.
Il 55,9 per cento dei detenuti disabili è ospitato in sezioni o reparti detentivi con ridotte barriere architettoniche, mentre il 44 per cento in reparti o sezioni aventi barriere architettoniche. Il 42,8 per cento dei detenuti disabili monitorati utilizza ausili per la deambulazione, mentre il 57,1 per cento non ne utilizza. Tra gli ausili, prevalgono la sedia a ruote (16,6 per cento) e i bastoni canadesi (11,9 per cento). Pena espiata e pena residua. La pena espiata più lunga è di 28 anni, mentre la più breve è di 8 giorni. La pena espiata più lunga è di 19 anni, la più breve è di 16 giorni.
Fin qui, le cifre. Poi ci sono le singole storie. Come Giuseppe C., ergastolano di 67 anni, detenuto nel carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino. Giuseppe è morto nel Repartino Detenuti dell’Ospedale “Molinette”, dove era stato trasportato in seguito dell’aggravamento delle patologie di cui soffriva. Con il decesso di Giuseppe C. salgono a 71 i detenuti che hanno perso la vita da inizio anno: 21 per suicidio, 32 per malattia, 18 per cause “da accertare”.
Otto di loro avevano più di 65 anni e 5 avevano superato i 70 anni, limite oltre il quale è possibile scontare la pena in detenzione domiciliare presso la propria abitazione, o presso un luogo di cura, come previsto dalla Legge. Nonostante la suddetta norma sia in vigore da oltre 7 anni, 31 dicembre 2012 gli ultrasettantenni presenti nelle carceri italiane risultavano ben 587, mentre i detenuti con un’età compresa tra i 60 ed i 70 anni erano 2.489.
L’attuale situazione carceraria, caratterizzata in molti Istituti di Pena da sovraffollamento, condizioni igieniche ed ambientali degradate, carenze dell’assistenza sanitaria e insufficiente presenza di Personale penitenziario, per i detenuti anziani rappresenta una vera e propria condanna a “morire di carcere”.
Una situazione, quella delle carceri, che ha indotto Salvo Fleres, garante dei detenuti siciliani ha scrivere una dura lettera aperta: “Secondo il dott. Pietro Grasso, allora procuratore nazionale antimafia, oggi autorevole presidente del Senato, “la criminalità si pone come rete di servizi”. Credo che la definizione sia assolutamente calzante e rispondente al metodo che essa, soprattutto quella organizzata, adotta nei confronti dei suoi interlocutori intesi sia come aderenti, sia come simpatizzanti, sia come vittime. Nulla, infatti, giova di più alla criminalità se non uno Stato assente, inadeguato, litigioso, autoreferenziale, impastoiato, instabile.
Giova alla criminalità uno Stato che trascura parti del proprio territorio, come accade al Sud; giova alla criminalità uno Stato rappresentato da una classe politica non all’altezza del compito che essa dovrebbe svolgere; giova alla criminalità un sistema istituzionale che esalta il conflitto piuttosto che la soluzione; giova alla criminalità uno Stato che non guarda agli amministrati bensì agli amministratori, come accadrebbe se si pensasse che le ferrovie debbano essere funzionali ai ferrovieri piuttosto che ai passeggeri, le scuole agli insegnanti piuttosto che agli allievi, gli ospedali ai medici piuttosto che agli ammalati; giova alla criminalità una burocrazia incompetente, corrotta o semplicemente svogliata.
Insomma, giova alla criminalità un sistema inefficiente, incerto ed insicuro, a cui sostituirsi, con “una rete di servizi”, ogni volta che ciò sia possibile, magari grazie a qualche aiutino più o meno consapevole. In tutti questi casi la criminalità si insinua nelle fessure provocate dalle lesioni dello Stato e dilaga, come sta accadendo nel sistema penitenziario italiano, che ormai fa acqua da tutte le parti, per responsabilità varie e diffuse.
Già, perché se lo Stato delegittima se stesso, tradendo il dettato costituzionale e le disposizioni sulle carceri, se legifera male, se amministra peggio, se non offre opportunità scolastiche o lavorative, se non contrasta l’offensivo sovraffollamento, se ostacola, attraverso il ricorso a maldestri quanto sprovveduti funzionari, l’azione di chi, come i garanti dei diritti dei detenuti, tenta di contribuire a ricostituire atteggiamenti legali nelle carceri, ecco, in questi casi, lo Stato, con la complicità, anzi, grazie all’opera di taluni ben individuati soggetti, diviene il migliore e più sicuro alleato della criminalità che, invece, dovrebbe voler contrastare.
Intendo dire che è alleato del crimine chi allunga i tempi della giustizia, chi ammassa i reclusi come se fossero bestie, chi non adegua gli organici della polizia penitenziaria, chi non recepisce le norme sulla sanità in carcere, chi definanzia le leggi per il lavoro ai detenuti.
Così come è alleato della criminalità chi tenta di indebolire, con iniziative che somigliano tanto ad un “avvertimento”, l’azione dei Garanti dei diritti dei detenuti e chi tutela la burocrazia inetta quanto infedele, che costituisce l’humus nel quale meglio attecchirà la corruzione, il crimine, la violenza e la sfiducia verso atteggiamenti legali.
Non credo che una tale situazione possa essere ulteriormente tollerata, anzi, penso che sia dovere di ciascuno, dei Garanti in particolare, non tollerare affatto persone, luoghi o situazioni che costituiscono, consapevolmente o non consapevolmente, il terreno di coltura dell’antistato. Lo Stato vince se ha la forza di resistere persino ai mali che esso stesso rischia di causare. Per raggiungere la meta non vi sono scorciatoie né giustizialiste, né securitarie, ciò che serve è il buonsenso e la legalità da parte di tutti, persone e istituzioni”.
Una lettera rimasta senza risposta. E anche questa è, volendo, una risposta. Un’alta non meno dura denuncia viene dal ministro degli Esteri Emma Bonino: l’Italia può diventare più credibile in tema di diritti umani solo affrontando i problemi, come il sovraffollamento delle carceri e la lunghezza dei processi, per i quali ha ricevuto “tantissime” condanne dalla Corte europea per i diritti dell’uomo.
“Spero davvero, con l’appoggio parlamentare, che ci sia un nuovo inizio certamente la questione delle minoranze e dei diritti è fondamentale e uno dei modi per poterla affrontare “è quello di essere credibili anche a casa propria”. L’Italia è stata condannata su diversi aspetti ed è necessario che il governo assuma delle iniziative che ci facciano uscire da una situazione che mina la credibilità del paese, al di là di quanto è dolorosa per i cittadini che non vedono rispettati i propri diritti alla difesa, o nelle condizioni delle carceri”.
Nel frattempo il ministro Anna Maria Cancellieri si prepara ad affrontare per prima l’emergenza delle prigioni sovraffollate. Ai suoi più stretti collaboratori: “Questo carcere, così com’è, non migliora certo le persone”. Sono in molti ad aspettare al varco il ministro che siede sulla poltrona più scomoda del governo di larghe intese, non a caso un tecnico sganciato dai partiti. Le visioni di Pdl e Pd sulla giustizia sono praticamente inconciliabili e le feroci polemiche di questi giorni, dalla manifestazione di Brescia in poi, sono lì a dimostrarlo.
Il Guardasigilli si è finora segnalato per il silenzio, nonostante le sollecitazioni di ogni tipo, e lo stesso Enrico Letta sulla giustizia si è tenuto sulle generali anche in sede di presentazione del programma di governo. In via Arenula meditano di esordire con un “pacchetto carceri” che segua tre direttrici: la costruzione di nuovi penitenziari, un maggior utilizzo dei braccialetti elettronici e la proroga del decreto “svuota carceri”.
Ma ci sono anche riforme più strutturali, già chiaramente delineate nella relazione finale dei Saggi del presidente Napolitano, come un maggior ricorso all’affidamento in prova e alla detenzione domiciliare, un vasto processo di depenalizzazione dei reati meno gravi e “l’introduzione su larga scala di pene alternative alla detenzione”.
Con oltre 65 mila detenuti su 44 mila posti regolamentari l’Italia è ampiamente fuori legge e a gennaio scade la moratoria concessa all’Italia dalla Corte di Strasburgo per evitare altre condanne per “trattamenti inumani e degradanti”. “Mi auguro che questo governo riesca a girare pagina sulle condizioni delle carceri”, dice Emma Bonino. E sulla materia vigila il presidente della Repubblica, che sarebbe addirittura pronto a firmare un’amnistia, se solo i partiti trovassero un’intesa.
“L’Europa ci ha messo in mora per quanto riguarda la situazione delle carceri. Versano in condizioni che non sono più prevedibili. Credo che non servano nuovi indulti o amnistie. Ci sono altri strumenti da valorizzare rispetto alle pene detentive. Per esempio le sanzioni patrimoniali e interdittive. Il reato non deve essere più conveniente perché i benefici economici che si ricavano non possono essere più conservati.
In questo modo chi compie un reato deve sapere che non ne trarrà benefici. Il problema delle carceri va quindi affrontato nella sua interezza”, sostiene Rodolfo Maria Sabelli, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati: “Diciamo che cosa serve: serve una giustizia più efficiente, servono delle carceri. Questi sono i temi sui quali concentrarsi. Serve una forte attenzione sui temi della criminalità e dell’infiltrazione criminale nella realtà economica e finanziaria”. Che sia la volta buona? Auguriamocelo, anche se l’esperienza giustifica pessimismo. [3]
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