
«Siamo come la Roma, che ha perso malamente in casa». Alle dieci e venti di sera è il sorriso amaro del vicesegretario mancato, Jean Leonard Touadi, a portare nella sede del partito la «delusione» per la sconfitta del leader. Più tardi, alle 23, arriva al Nazareno Dario Franceschini e riconosce la sconfitta: «Bersani è il nuovo segretario. Questa non è una serata di delusione, è una serata di festa perché ha vinto il Pd. E ora lavoriamo per un partito di forza e di unità». E dire che, a metà mattina, l’ormai ex leader aveva cominciato a sperare. Quando il «ministro dell’Interno» del Pd, Maurizio Migliavacca, ha comunicato i primi dati sull’affluenza «boom» e quando, su Sky, è apparso Nanni Moretti che annunciava «voterò Franceschini», il segretario ha pensato che non tutto, forse, era perduto. E così all’ora di pranzo, dal suo cellulare, ha spedito via Twitter un sms all’ex leader dei Girotondi: «Grazie Nanni! Prometto: dirò qualcosa di sinistra». Ora invece a dire (e fare) qualcosa di sinistra sarà Pier Luigi Bersani e a Franceschini toccherà il ruolo di leader dell’opposizione interna, sempre che il nuovo segretario non tenga fede all’impegno di guidare il Pd con metodo collegiale.
Camicia botton down sotto il di Stabia, luogo simbolo delle infiltrazioni camorristiche e della politica che uccide. E quindi, per Franceschini, una terra emblematica per desiderio di cambiamento. Non l’Italia oscura raccontata dalle cronache, quella di Castellammare, ma una «bella Italia», fatta di gente «normale e girocollo blu, alle quattro Franceschini compare al gazebo di piazza del Popolo. «Chi voto? Sono indeciso» scherza davanti alle telecamere. Molti flash, qualche battuta ed ecco un gruppone di concittadini in gita: «Cosa ci fate a Roma? Dovreste essere a Ferrara a votare per me! Non potevo incontrare dei piacentini? — allude alla città di Bersani —. Se perdo per trenta voti, guai a voi». Stringe mani, bacia guance, riceve in dono due libri e un rosario, si mostra ottimista anche se poi non lo è. Pensa che l’affluenza alta penalizzi Bersani? «Sono cose da studiosi, queste — risponde cauto Franceschini —. Ma so che tanta gente perbene sta votando, è una prova straordinaria di democrazia. Chiunque vinca, è la partecipazione la cosa più importante».
«Il Pd non è morto, il Pd è nato ieri», dicono i suoi, e l’ormai ex segretario, dopo otto mesi di leadership, si prepara a rivendicare ancora di aver «salvato il partito». E a sottolineare quella che ritiene la prima sconfitta politica di Bersani: la vittoria del popolo delle primarie e, dunque, degli elettori sugli iscritti. Come dirà in serata Walter Verini «è una svolta incontrovertibile, un dato da cui non si potrà prescindere». E che disegna, nell’interpretazione dei franceschiniani, un partito ben diverso da quello immaginato da Bersani. Un Pd magari non «liquido», ma di certo aperto.
La giornata di Dario era iniziata al mattino presto con un blitz a Castellammare onesta» che non vede l’ora di voltare pagina.
Tre mesi di campagna, novanta giorni per dare l’assalto a Bassolino e Loiero, indicati come la malattia che divora le viscere del centrosinistra. Poi le ore drammatiche del caso Marrazzo, con lo scontro al vertice sul destino del governatore. La vittoria di Bersani nella prima fase congressuale, quella dei circoli, lo ha costretto a giocare all’attacco. Hanno fatto notizia i suoi impietosi affondi contro Massimo D’Alema, principale sponsor di Bersani: D’Alema come simbolo di una politica tutta «inciuci» e bicamerali, paradigma del vecchio che deve fare spazio al nuovo.
E il nuovo, nella squadra di Dario, ha i volti e i nomi di Debora Serracchiani, David Sassoli e del professor Touadi. Il piccolo «Obama» del Pd nostrano è stato l’ultimo colpo di scena prima del voto. Un nero come vicesegretario e il ritorno del ticket all’americana, la stessa formula che lanciò Franceschini come numero due di Veltroni.
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