
La colonna con l’aquila dei Romanov che ricorda l’eroismo degli artiglieri russi sovrasta la pianura di Balaclava dove la brigata leggera galoppò, follemente, verso la gloria. Guardo le vigne placide e i mandorli che cominciano a fiorire, il trionfo mite, lento, magico, di una magia affettuosa della luce primaverile. Tredici ottobre 1854. Qui molti uomini morirono. Per un conflitto in cui nessuno, alla fine, fu vincitore: l’eterna idiozia della guerra, l’inutilità criminale del sacrificio di esseri umani. Aerei russi e ucraini si sfiorano nel cielo della Crimea; per ore è circolato, ieri, l’annuncio di un ultimatum che l’ammiraglio Aleksander Vikto, comandante della flotta del Mar Nero, aveva lanciato agli ultimi soldati ucraini che in Crimea non sono stati ancora sopraffatti. Poi la smentita. Mosse, contromosse, pericolose, della guerra psicologica. Uno sparo, un gesto di nervosismo può trasformarsi in scontro aperto. Ogni minuto. I soldati ucraini non hanno speranza, ma forse qualcuno, per onore, per coraggio, resisterà. Ci saranno morti. La vita degli uomini nel tempo è tortuosa e complicata, ma quando la si guarda dall’alto di questa collina si vede che nasconde una sua linea retta: dolore, sofferenza, inutilità.
L’ira degli imbecilli riempie di nuovo il mondo. Ma questa volta nessuno combatterà una nuova guerra di Crimea. Nessuno sbarcherà per aiutare l’Ucraina a riprendersi la penisola perduta. Almeno per ora Putin, il grande Semplificatore, ha vinto. Perché ha la determinazione, i mezzi e il cinismo che mancano ai suoi avversari. In quarantotto ore, con poche mosse, senza neppure un morto, ha corretto gli errori di Kruscev e di Eltsin. La nuova Guerra Fredda non assomiglierà certo all’antica, non sarà globale, ma congelerà l’Est dell’Europa per molto tempo. Se Putin non si spingerà troppo lontano. Guardano l’affannarsi diplomatico dell’Occidente, eccellente esempio di come si possa parlare di cose sublimi e poi agire meschinamente. Hanno capito: non sarà Danzica quando l’Europa indignata alla fine reagì. La loro Crimea assomiglierà a Praga. Tutti gli ucraini che ascolto mi dicono, rassegnati, che questo capitolo è chiuso: «A Simferopoli annunciano che si preparano ad allinearsi sull’ora di Mosca e non più su quella di Kiev. Dopo appena tre giorni dall’aggressione, che fretta spudorata». Con gli uncini per cui un fatto tira l’altro, il potere centrale, martirizzato da eredità disastrose, da un’economia al collasso e da una legittimità incerta che non tutti gli ucraini riconoscono, si sta sgretolando.
Nelle città è cominciata la raccolta delle firme per il referendum che deve sancire il distacco da Kiev, la formula per tornare nelle braccia di Mosca non sarà difficile trovarla. Le magre truppe che presidiavano questa penisola, soverchiate dai russi, escono dalle caserme, alzano le mani, si mettono in civile, tornano a casa: non era difficile prevederlo, sono in rapporto di uno a dieci. Questa è l’ultima classe di ragazzi richiamata per la leva obbligatoria. Da quest’anno doveva essere organizzato un esercito di professionisti. Saranno i diciottenni di Maidan, dunque, che dovranno morire se ci sarà la guerra. «Ieri - fa la conta, trionfalmente, Mosca - altri seimila soldati si sono arresi». Ottocento a Belbeck, l’aeroporto militare di Sebastopoli: nella base c’erano 45 mig, una buona forza per resistere. Solo quattro erano in grado di alzarsi in volo. La forza brutale domina, affiocchisce ogni diritto; la fragilità degli altri, la loro cecità, i loro errori fanno il resto. Che banalità! Sulla strada da Simferopoli a Balaclava un trasporto truppe russo è rimasto in panne. I soldati fumano, placidamente, in attesa dei soccorsi. A duecento metri da loro una pattuglia della polizia stradale locale, con un implacabile multavelox, setaccia le auto che infrangono il limite dei settanta all’ora. Un’altra colonna russa è ferma vicino a un villaggio tataro, dai camion-cucina i cuochi sgamellano per comprare provviste nei mercatini sulla strada: non si nascondono più, le targhe russe sono tornate al loro posto. Vecchine tatare scrutano, enigmatiche, questi ragazzoni che indossano pesanti giacche a vento e colbacchi con le insegne tricolori, e sudano sotto il sole già bruciante di primavera.
Il tempo sembra essere balzato, qui, su una macchina da corsa e all’auto che corre non si può gridare: fermati, voglio capire meglio! Si può solo descrivere la luce fuggente dei fari. E si può anche finire sotto le ruote. L’autista accende la radio: arrivano, implacabili, le nuove tappe del piano russo, i denti dell’ingranaggio che stritolerà l’Ucraina si agganciano scricchiolando. A Donetsk una plebe russofona ha invaso il palazzo del governatore alzando la bandiera russa. Un tal Pavel Gubarev, autoproclamatosi governatore, ha tuonato: «Abbiamo preso il potere!». Il referendum per proclamare la volontà popolare contro «i fascisti di Kiev» è già in preparazione. C’era un governatore nominato dal nuovo governo. Non è mai riuscito ad arrivare qui. Anche a Odessa, la multietnica, elegante, sciupata Odessa i russofoni hanno assalito il Palazzo. Ma qui i favorevoli a Maidan ancora li fronteggiano in piazza: bastoni, caschi, odio.
Sì, l’ira degli imbecilli riempie il mondo. Concentra veleni che rendono il popolo dell’Est disponibile, palmo dopo palmo, per ogni sorta di violenza. È folla illusa dall’Oratore invisibile, dalle voci che arrivano da ogni parte, voci che l’hanno ormai presa nelle viscere tanto più potenti sui suoi nervi quanto più si sforzano di parlare il linguaggio dei suoi desideri, dei suoi odi, dei suoi terrori. Nella rada di Balaclava l’aria è trasparente, venata di argento come le ali delle cicale, indugia pigra sulle pietre della fortezza genovese, sulle colline che declinano al mare con lievi pendii chiazzate da selve di arbusti. La presidiano all’ingresso non più sommergibili e cannoni, ma ville e yacht degli oligarchi ucraini, i tetti verdi, le sagome di antiche dimore aristocratiche sconciamente convertite allo stile internazionale dei nuovi ricchi.
Famigliole sbarcate da auto agonizzanti, ignare della guerra che incombe e starnazza ovunque, il viso ricamato con i punti interrogativi della curiosità, spiano i vascelli immensi. Di fronte c’è l’antro da cui uscivano i sommergibili sovietici, il «Progetto 825», uno dei segreti più custoditi del mondo, l’imbocco degli inferi della potenza staliniana. Acqua marcia accarezza il cemento sgretolato, rifiuti si insinuano nel canale di un chilometro scavato nella roccia, dove i sottomarini venivano armati con le atomiche. La montagna ha il suo scheletro nell’armadio. «Eppure non era meglio quella gloria, quella fatica, quella Storia di questi la- dri, del loro denaro, delle loro ville?». Laievski, ex marinaio della Flotta russa, custodisce per vivere la barca di un inglese ormeggiata nella rada. È un uomo debole e smarrito, han fatto cadere dal cielo, molti anni fa, la sua stella e la sua traccia si è confusa con l’oscurità della notte. Il padre era venuto qui dalle miniere del Donbass, convocato da Kruscev che voleva completare questa follia militare di Stalin: «Guadagnavano il doppio, ma dovevano tenere la bocca cucita».
Quella stella non tornerà più. Perché la vita si dà soltanto una volta e non si ripete. Se fosse possibile far tornare i giorni e gli anni avrebbe sostituito in essi la menzogna con la verità. Ma ora è il tempo degli oligarchi e di Putin. Illusioni, miraggi. I despoti sono sempre stati degli illusionisti. In fondo alla rada, la base della marina ucraina, al molo è attraccato un pattugliatore. Murales giganteschi sul muro di cinta annunciano sbarchi memorabili, bombardamenti da scolpire nel bronzo. Ma sono sparite le bandiere gialle e blu. E con loro i soldati russi che appena due giorni fa la assediavano. Tre miliziani dei gruppi di autodifesa, attraverso i passamontagna di ordinanza, spiano la quieta impudicizia delle minigonne transitanti. La base è passata sotto il controllo del nuovo governo filorusso. Il loro ammiraglio ha giurato fedeltà alla Crimea: «Che potevamo fare?». Già: che potevano fare?
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