
Il caso Formigoni fa riflettere. E' l'ennesima volta che un politico di rilievo, coinvolto in un'indagine, afferma di non volersi dimettere. Non mi dimetto - dice - perché altri non l'hanno fatto prima di me. Avrebbe potuto argomentare un po' meglio le sue ragioni e provare che lui e non altri aveva sostenuto le spese per cui è indagato, per fugare il sospetto di corruzione in cambio di delibere. Inutili i consueti paragoni con politici stranieri che per molto meno si dimettono. In Germania il Presidente della Repubblica lasciò per aver ottenuto un finanziamento agevolato da un imprenditore amico. Dimissioni, quindi, a prescindere dalla rilevanza penale di un comportamento e dall'attinenza con l'incarico pubblico, con avvenimenti passati o con la sfera privata.
Perché le dimissioni non sono una resa del soggetto al giustizialismo della piazza, ma una questione di rilievo istituzionale, sono necessarie per tutelare la carica. Qui non c'entrano sete di giustizia e voglia di punire un reo; il politico indagato non è ancora un politico colpevole, ma è un uomo la cui storia personale non deve in alcun modo ledere la legittimità dell'Istituzione che rappresenta. Alla Politica italiana non manca quella "moralità" che invece la Politica all'estero possiede: troppo facile come alibi.
La verità è che questi comportamenti non sono altro che il segno tangibile della crisi istituzionale che ha caratterizzato la Seconda Repubblica sin dagli inizi, che si è consumata e manifestata in maniera evidente nella dialettica violenta, costante e sempre sotto traccia, tra Politica e Giustizia. Su questa tensione ha giustificato la propria esistenza politica Silvio Berlusconi, soggetto plurinquisito, pluri-sospettato, che ha avuto tutto l'interesse a sovvertire, con la sua stessa presenza in politica, il concetto di persecuzione. Concetto traviato e strumentalizzato nel corso degli anni, cui prima o poi dovremmo restituire dignità. La tensione tra Politica e Giustizia si è sostanziata in venti anni di reciproca delegittimazione, anni in cui la Politica che volesse riformare la Giustizia era vista come golpista, come se in ballo ci fosse la sopravvivenza del principio di separazione dei poteri. Come se la magistratura potesse davvero riformarsi da sola, come se fosse anticostituzionale – cosa che non è – che la Politica si arrogasse il diritto di mettere mano al sistema giudiziario. Come se ciascun potere fosse un'isola nella cornice statuale. Allo stesso tempo – e qui si torna al caso Formigoni – la politica (con la minuscola) non ha esitato a strumentalizzare ciò che poteva, affermando, ad esempio, che ogni azione giudiziaria non fosse giustificabile se non rivolta verso l'avversario politico. Quindi perché dimettersi? Altro caso quello di Filippo Penati, sul quale, con estrema saldezza, la sua parte politica (il Pd) ha voluto stendere un velo di silenzio: il corrotto è solo una pulce nella criniera del bellissimo cavallo.
Eppure manca ancora un tassello a questo mio discorso, alla quadratura del cerchio. Cosa legittima un politico sotto processo a non dimettersi? Cosa alimenta l'equivoco secondo cui la giustizia sarebbe ingiusta, persecutoria, mai legittima e, finanche, a orologeria? Ecco cosa: la mancanza di sentenze definitive in tempi brevi. Il discorso di Formigoni e di altri politici trova una sua legittimazione in un dato oggettivo inoppugnabile: quando si viene raggiunti da un avviso di garanzia non c'è speranza che nell'arco di sette o dieci anni si possa giungere a una verità consacrata da un tribunale. Chiunque si trovi a compiere un reato contro la pubblica amministrazione sa che l'ipotesi più verosimile è la prescrizione e quindi sa che le sue responsabilità “a parte un po' di clamore mediatico" non verranno mai affermate. Come è possibile sperare, quindi, che un soggetto politico, sapendo che mai la propria responsabilità penale verrà sancita, si dimetta e rinunci al potere? E allora, non dobbiamo chiederci come mai Formigoni non si dimetta, ma piuttosto come sia possibile che la riforma della giustizia non venga avvertita nel nostro Paese come un'urgenza, come una priorità. Senza quella, poco o nulla potrà mai cambiare.
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