
Roma. "La Costituzione rientra in fabbrica", ha ribadito ieri il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, commentando da Palermo la sentenza di due giorni fa della Corte costituzionale che ha dichiarato "illegittimo" l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. L’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, si era aggrappato proprio a un’interpretazione letterale di quell’articolo per applicare i contratti aziendali a Pomigliano e negli altri stabilimenti del Lingotto, superando così i veti opposti dai sindacati minoritari. Già l’altroieri la Fiom, cioè il sindacato dei metalmeccanici della Cgil, aveva celebrato la vittoria giudiziaria citando la Costituzione. "Attendo di leggere le motivazioni della Consulta. Ma a dire il vero la Costituzione sul posto di lavoro i sindacati italiani non l’hanno mai voluta - dice al Foglio Michele De Lucia, tesoriere di Radicali italiani - Hanno sempre preferito l’arbitrio. Non mi risulta, per esempio, che sia mai stato attuato l’articolo 39 della Costituzione, quello per cui i sindacati hanno l’obbligo di registrarsi a condizione che i loro statuti ‘sanciscano un ordinamento interno a base democratica’". De Lucia poi osserva un altro paradosso: l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, così com’è oggi, è frutto di un referendum abrogativo del 1995, voluto da Rifondazione comunista, Cobas e dalla Fiom. "Noi Radicali ci esprimemmo a favore, ma adesso quel referendum è curiosamente rimasto orfano".
Secondo l’articolo 19 originario, infatti, le Rappresentanze sindacali aziendali - che a differenza delle Rappresentanze sindacali unitarie sono votate solo dagli iscritti ai sindacati - erano aperte esclusivamente ai "sindacati maggiormente rappresentativi" e a quelli "firmatari di contratti collettivi". Fiom & co., con il sostegno dei Radicali, riuscirono ad abrogare la prima condizione grazie al 62 per cento dei consensi degli italiani, non la seconda: "Era il giusto tentativo di togliere il monopolio della contrattazione dalle mani dei soliti tre sindacati nazionali", dice De Lucia che nei Radicali segue anche le questioni economiche. Ora però la sentenza della Corte ha ritenuto illegittimo il tentativo di Marchionne di stare alla lettera dello Statuto. "Ci tengo a precisare una cosa. Quella dell’ad di Fiat non mi sembra un’operazione industriale, ma tutt’al più una speculazione. Va via dall’Italia dove non ci sono più finanziamenti pubblici, e preferisce gli Stati Uniti dove quei finanziamenti ci sono - osserva De Lucia che nel 2002 ha pubblicato per Stampa Alternativa il libro "Fiat quanto ci costi?" e non è sospettabile di simpatie per la Casa di Torino - Poi però, nella vicenda Marchionne, c’è un elemento di rottura dirompente dello status quo nelle relazioni industriali italiane, il tentativo di aprire a una contrattazione all’americana, a livello aziendale. E questo aspetto è davvero innovativo e salutare, nonostante l’opposizione di chi la Costituzione la brandisce a giorni alterni. A partire da un sindacato che ha messo davanti a tutto l’ideologia politica, rischiando di trasformarsi in partito politico". Poi c’è il fronte di quelli che una volta avremmo chiamato "padroni": "È significativo che Fiat sia dovuta uscire dalla Confindustria per fare quello che ha fatto".
Ieri la notizia della sentenza anti Fiat era a pagina 37 del Sole 24 Ore, quotidiano confindustriale, su 38 pagine complessive: "Gli imprenditori associati, da noi, fanno sempre più gli interessi di pochi grandi gruppi, d’accordo con i sindacati nazionali. Il corpaccione delle piccole e medie imprese, per esempio, rimane strangolato. Si prenda il caso della cassa integrazione in deroga, introdotta nel 2009: è stato il tentativo della politica di mettere una toppa a un regime di ammortizzatori sociali, vedi soprattutto sulla cassa integrazione straordinaria, che chiedeva soldi a imprenditori e lavoratori delle imprese con più di 15 dipendenti, salvo poi usare quelle risorse soltanto per i gruppi più grandi e meglio collegati alla politica. La toppa della Cig in deroga arriva tardi ed è controproducente perché tiene in piedi anche aziende decotte". In definitiva, "siamo all’interno di un sistema corporativo, dove la combinazione tra capitale e lavoro è mediata dallo stato. Ma lo stato non dovrebbe fare da mediatore, come avviene nella concertazione all’italiana". Intanto però l’esperimento di contrattazione à la Marchionne è a rischio: "All’ad di Fiat si può imputare al massimo di non aver saputo vincere. Infatti ha voluto stravincere. Avrebbe potuto rendere esecutivi i contratti approvati dai lavoratori, e poi tentare di offrire comunque la possibilità di essere rappresentati ai sindacati rimasti in minoranza. Ma d’altronde lui è un imprenditore, qui servirebbe la politica. Ieri, tuttavia, il sottosegretario allo Sviluppo economico, Claudio De Vincenti, ha detto che "la decisione della Corte costituzionale va applicata ma sono le parti sociali che devono incontrare l’azienda. Il governo non c’entra nulla".
De Lucia non è d’accordo: "Il primo bene pubblico da garantire, soprattutto nel nostro paese, è la certezza del diritto. Noi Radicali siamo fuori dal Parlamento, ma siamo impegnati in queste ore su dodici referendum, di cui sei incentrati proprio sulla riforma della giustizia. Con processi civili più brevi, e maggiori risorse per il settore penale, riusciremmo per esempio a intercettare un flusso crescente di investimenti esteri. Oggi, in quanto ad attrazione dei capitali stranieri, soltanto la Grecia fa peggio di noi. È però vitale più informazione per non far fallire questa iniziativa". E il leader radicale Marco Pannella è per questo nel pieno di un’iniziativa nonviolenta per garantire "il diritto a conoscere dei cittadini italiani". A Marchionne cambierebbe poco, anche se i referendum fossero presentati e vinti: "Su questo è necessario approvare la proposta di legge Ichino-Della Vedova sulla rappresentanza che riprende quella a prima firma Bonino-Ichino della scorsa legislatura - conclude il radicale De Lucia - Si tratta di dare alla coalizione sindacale maggioritaria in azienda il potere di stipulare accordi vincolanti per tutti. Al sindacato minoritario si garantisce il diritto alla rappresentanza, ma non il diritto di veto con le sue rendite di posizione, cioè la possibilità di non sottoscrivere gli accordi e poi beneficiare ugualmente dei risultati".
© 2013 Il Foglio. Tutti i diritti riservati