
La missione è andata in porto, le Regioni hanno approvato le linee guida: la fecondazione eterologa non è più un tabù e le donne piemontesi potranno finalmente andare negli ospedali pubblici pagando un ticket fra i 400 e gli 800 euro. Non più di quanto abbiano pagato finora per la fecondazione omologa. Una prima stima, certo. Per il Piemonte finora il prezzo oscilla a seconda degli esami e prestazioni necessarie, la somma di singole voci che variano da caso a caso: numero si esami, monitoraggio, visite.
Sergio Chiamparino, di ritorno dalla missione con il ministro Beatrice Lorenzin e con i governatori di tutte le regioni italiane, conferma che la spesa per le famiglie piemontesi che scelgono la fecondazione eterologa non dovrebbe essere superiore «probabilmente una cifra intermedia fra i 400 e gli 800 euro», chiarisce. Cifre ben diversa dalle migliaia di euro che si spendono nel privato e all’estero, con punte di 7-8mila euro. Un altro obiettivo centrato durante l’incontro con il ministro è che il Piemonte non sarà penalizzato come Regione sottoposta a piano di rientro. Era questa la preoccupazione della vigilia ma anche in questo caso Chiamparino è riuscito a spuntarla: la fecondazione eterologa rientrerà nei Lea, i livelli essenziali di assistenza: «riconosciuta come procreazione medica assistita e quindi assimilabile ad un’intesa già chiusa nel 2004», spiega Chiamparino. Ora è tempo di chiarire gli aspetti tecnici. Poi si può partire.
«Credo che la delibera possa arrivare entro settembre, per la partenza non sono in grado di stabilire date al momento», dice l’assessore alla sanità Antonio Saitta che ieri ha rappresentato il Piemonte al tavolo delle Regioni considerato che Chiamparino vestiva i panni del presidente. L’assessore non pensa sia necessario correre «quello che bisogna fare è assicurarsi di garantire le migliori condizioni sanitarie per la donna che si sottopone alla fecondazione ». Saitta precisa ancora che nel documento varato dalle Regioni è stato riconosciuto l’anonimato del donatore: nessuno potrà conoscerne l’identità tranne in casi eccezionali: «Un principio importante che evita situazioni complesse che possono toccare i rapporti parentali ». Adesso la discussione passa ai tecnici, che dovranno anche chiarire se la banda dati dei donatori e delle donatrici nascerà a livello regionale o sarà invece ogni singolo centro ad attrezzarsi: «La condizione migliore sarebbe stata quella di avere una banca dati nazionale», aggiunge Saitta.
Non la pensa così il ginecologo Silvio Viale: «Credo che ogni centro o una rete di centri possa avere la propria banca di donatori perché è il centro che garantisce l’anonimato e i donatori. Non c’è nessun motivo per avere una schedatura nazionale». Gli ospedali torinesi pronti a partire sono il Sant’Anna e il Maria Vittoria. A Torino, sostiene Viale, fra centri pubblici e convenzionati sono circa tremila le donne che si sottopongono a cicli di fecondazione assistita. Altre mille si rivolgono ai privati. Di “gravidanza da ovodonazione” si parlerà il 24 settembre all’ospedale Sant’Anna in un convegno dell’Università degli Studi organizzato da Tullia Todros.
© 2014 La Repubblica - Ed. Torino. Tutti i diritti riservati