
21/10/10
Il Foglio
Mi pare di aver letto, molto tempo fa, che il primo spunto per il suo film su Gesù Pasolini lo trovò leggiucchiando una sera, in albergo, i Vangeli. Riprendendo una consuetudine della cultura protestante (americana?) per la quale negli alberghi, sul comodino accanto al letto, c’è sempre, a disposizione del cliente, una copia della Bibbia, anche qualche albergo italiano lascia nel cassetto una copia dei Vangeli. Credo di essermene portato a casa, anni fa, una (di stampo protestante, peraltro). Magari in inglese, perché appartenute a mia moglie, a casa ho diverse edizioni della Bibbia e dei Vangeli. Amo però soprattutto la traduzione del Nuovo Testamento del lucchese Giovanni Diodati, un capolavoro della lingua italiana purtroppo ignorato (salvo una bellissima edizione Mondatori del 1999) forse perché protestante. Il Diodati la compose nel 1607, a Ginevra. Me la regalò un compagno di liceo, metodista. L’ho sempre portata con me.
A Pasolini piacque la figura di Cristo un po’ come quella di Medea e di Edipo, o dei personaggi del Boccaccio, di Chaucer o delle Mille e una Notte, che gli consentivano la rievocazione di ambienti primitivi, barbarici ed esotici, innervati su una interpretazione legata ai miti postsessantottini della rivoluzione più o meno guevarista/populista (e magari sessista). E’ però indubbio che la figura del Cristo riesce a salvarsi anche nei nostri tempi scettici, avari di fedi e chiese, e a diffondere una sua significativa immagine: forse non un vero e proprio messaggio, ma l’immagine è indubbiamente sempre intensa, spesso paragonabile a quella - per dire - del celebre Crocifisso di Ognissanti, appena uscito dal restauro di cui ha scritto Arturo Carlo Quintavalle. Il capolavoro rappresenta, per il grande critico, “una scena ricca di pathos e tensione emotiva”: una interpretazione nuova, insomma, rispetto ai suoi tempi, come nuova era stata quella del Cristo Pantocratore di Monreale o come oggi potremmo dire del Cristo di Dalì, che sembra uscito dallo studio di un aerofuturista. Anche il film di Pasolini è una (re)interpretazione della sacra figura. A partire dalle biografie di Pascal, di Reimarus o di Renan, per non citare quelle di Schweitzer o di Bultmann, ecc., essa è stata letta, e quindi dipinta, scolpita e filmata (dimenticavo Mel Gibson) in mille fogge diverse. Ciascuna con la pretesa di darcene l’immagine a tutto tondo. Quale è la vera?
Domanda forse vacua, ormai: ho sottomano una interpretazione storica (Giancarlo Gaeta, “Il Gesù moderno”, Einaudi, 10 euro) che intende porre in modo diverso il problema: escludendo categoricamente che si possa mai più scrivere una biografia di Gesù Cristo, l’autore sostiene che occorre (ed è possibile, lavorando non solo sul Nuovo Testamento ma su tutte le fonti a disposizione) ridisegnare l’immagine tradizionale della sua figura per portare alla luce ciò che essa cela, cioè “l’uomo del proprio tempo, un personaggio marginale vissuto nella Palestina del I^ secolo che osò credere in un rivolgimento prossimo dell’esistenza del suo popolo ad opera di Dio stesso, ma che pagò con la vita il suo sogno: un sogno potente, bisogna aggiungere, se poté presto rigenerarsi in una nuova fede religiosa destinata a mutare la storia dell’occidente”. Secondo Gaeta, le due biografie che hanno meglio saputo leggere in questa direzione la vicenda di Gesù sono quella di Albert Schweitzer e quella di Rudolf Bultmann. Tutte e due separano nettamente il Gesù “ebreo” dalla figura del Cristo come si è venuta plasmando nella chiesa primitiva, la quale accentuò il”kerigma” - la potenza dell’”annuncio” del Messia - offuscando il personaggio storico. Per Schweitzer, tuttavia, nella tradizione neotestamentaria restano di lui tracce significative; per Bultmann, invece, l’interpretazione e manipolazione protoecclesiale va tenuta nettamente distinta, come profondamente diversa e persino prevaricatrice dal Gesù realmente esistito. Sembra che nel campo della storia, della filologia e della cristologia sia un dibattito affascinante: si tratta di “riscoprire” il significato di un personaggio che fu comunque, indiscutibilmente, di spicco. Quanto questo dibattito, imperniato su una esegesi rigorosamente laica, possa interessare la chiesa, o le chiese, mi è impossibile dire, ma è ovvio che almeno quella cattolica non intenda recedere della sua interpretazione canonica, quella della continuità necessaria tra Gesù il Nazareno e il Cristo dei miracoli, della passione, morte e resurrezione. Io non saprei intromettermi. Solo, mi incuriosisce pensare quale dei diversi percorsi interpretativi potrà riuscire a darci una immagine di Gesù (o del Cristo) così potente e necessaria come quelle di Giotto, di Monreale, o magari di Dalì. Mi pare però si possa dire che gli sforzi della Chiesa di oggi non siano riusciti nel compito. Ci tornerò sopra.
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