
Le parole di Mario Draghi hanno placato come per incanto le tensioni sui mercati; con la riunione di oggi del Consiglio della Bce, inizia il difficile compito di tradurre in fatti affermazioni molto impegnative, come «non abbiamo tabù», oppure «la Bce farà tutto quello che è necessario per salvare l'euro e, credetemi, sarà sufficiente».
Le attese si concentrano sulle armi a disposizione dell'istituto di Francoforte, a cominciare da un'ulteriore riduzione dei tassi, magari introducendo tassi negativi, cioè penalizzando i depositi delle banche presso la banca centrale.
Poi una terza edizione delle operazioni di mercato aperto a lungo termine, un nuovo round di acquisti di titoli pubblici in base al Smp (Securities markets programme), la trasformazione del fondo europeo in banca per consentire l'accesso al credito della Bce.
Il punto fondamentale è che l'Europa sembra finalmente aver raggiunto un consenso politico sufficiente a mettere in campo il "big bazooka" di cui si parla da oltre un anno, ma che finora era rimasto silenzioso nelle retrovie. Gli incontri di Tim Geithner con i leader europei hanno dato probabilmente un contributo decisivo. Tuttavia, è molto probabile che gli strumenti a disposizione dell'Eurotower vengano attivati con gradualità, non solo perché per ciascuno di essi vi sono molti dettagli tecnici da definire, ma soprattutto perché i problemi da risolvere sono tanti e sono peggiorati nel corso degli ultimi due anni.
Il drammatico ampliarsi degli spread dei Paesi periferici è il sintomo, certamente il più grave, di un malessere più generale, che ha annullato gran parte dei benefici dell'integrazione monetaria. I flussi da un Paese all'altro si sono improvvisamente inariditi anche perché, come ha ricordato lo stesso Draghi, le autorità dei principali Paesi hanno chiesto alle banche internazionali di mantenere la liquidità all'interno dei confini nazionali. Ma c'è di più. Gli interventi della Bce hanno effetti asimmetrici nei diversi Paesi: ad esempio, dopo l'eccezionale operazione a lungo termine (Ltro) realizzata tra fine 2011 e febbraio 2012 (mille miliardi di euro lordi, metà dei quali netti) i tassi a lunga nei Paesi del centro Europa, a cominciare da Germania e Francia sono diminuiti, mentre quelli di Italia e Spagna sono aumentati. Lo stesso accade nel segmento dei tassi a breve e porta al paradosso di una manovra espansiva che ha effetti completamente opposti in due regioni della stessa area monetaria, rendendole sempre più distanti fra loro.
Come ha recentemente affermato il governatore della Banca di Francia, Christian Noyer, in queste condizioni «la nostra politica monetaria non ha funzionato e semplicemente non funziona. E non si può continuare così». Nessun medico può usare farmaci che guariscono alcuni pazienti e aggravano le condizioni di altri. Non a caso, nel discorso di Londra, Draghi ha voluto dimostrare che l'uso di strumenti per quanto eccezionali rientra nel mandato della Bce, perché occorre ripristinare le condizioni di funzionamento della politica monetaria.
Ma è evidente che far ripartire il meccanismo di trasmissione della politica monetaria significa garantire che la liquidità immessa dalle banche centrali arrivi all'economia e alla realtà produttiva dei Paesi di Eurolandia. È questa la priorità principale delle decisioni che si dovranno prendere a cominciare da oggi. In effetti, la Ltro ha evitato un drammatico credit crunch, ma in senso positivo ha risolto i problemi delle banche, non certo quelli delle imprese. È stato un bene risolvere i problemi di funding delle banche, che avrebbero potuto rendere ancora più gravi quello del debito sovrano (di fatto l'ammontare lordo offerto rappresenta il 130% del totale delle obbligazioni non garantite in scadenza fino al 2014), ma - come rivelano le ultime indagini trimestrali - la disponibilità di credito all'economia sta nuovamente peggiorando.
Ma c'è un problema ancora più grave da affrontare, non a caso toccato negli interventi di Draghi e Noyer. Ripristinare le condizioni di efficacia della politica monetaria significa ritornare a un grado consistente di integrazione delle condizioni finanziarie, ma dopo tutto quello che abbiamo scoperto sull'indulgenza, per non dire la connivenza, dimostrata da tante autorità nazionali nei confronti di banche impegnate in ogni sorta di politiche aggressive e imprudenti (quando non smaccatamente fraudolente), la fiducia delle banche europee può tornare solo quando si saranno gettate le basi per una vera unione bancaria. È infatti chiaro che le banche europee non vivranno più le condizioni quasi idilliache di cui hanno goduto dall'introduzione dell'euro fino allo scoppio della crisi, anzi dovranno affrontare un lento e difficile processo di ristrutturazione e di assorbimento degli eccessi del passato. Ma questo non è possibile quando, come hanno ampiamente dimostrato le esperienze recenti dall'Irlanda alla Spagna, l'accertamento delle perdite è affidato alla discrezione dei regolatori nazionali e la soluzione delle crisi (Bankia docet) risponde solo ad esigenze politiche. Di conseguenza, unione bancaria significa unitarietà nella supervisione, nei meccanismi di assicurazione dei depositi, nelle procedure di intervento nei casi di crisi.
Draghi si è dimostrato ottimista su questo punto, e ha lodato la celerità della Commissione che presenterà una proposta all'inizio di settembre. Sui tempi, nulla da dire. Ma sui contenuti, non va dimenticato che finora la Commissione ha brillato per una dote che Karl Kraus attribuiva ai giornalisti: non avere un pensiero e saperlo esprimere. Speriamo che questa volta sia diverso.
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