
Una democrazia di grande vitalità, quella americana, con regole perfettibili. Le elezioni Usa parlano anche a noi. I punti critici sono presto detti: la trasparenza dei finanziamenti elettorali privati è ancora molto debole, la registrazione dei cittadini votanti va ampliata nettamente, l’efficienza delle commissioni elettorali può migliorare, visto che ci sono state file anche di sei ore per votare. Poi bisognerebbe spiegare al ministro della giustizia del Texas (repubblicano) che minacciare, come ha fatto, di arrestare gli osservatori Osce che si avvicinassero ai seggi non è il modo migliore per riaffermare la “superiorità democratica” degli Stati Uniti.
Ancora: il sistema federale prevede che ciascuno stato regoli le procedure elettorali autonomamente e, l’assenza di standard uniformi ha creato possibilità di abusi, in particolare ai danni delle fasce più emarginate della società che non partecipano al voto non registrandosi.
Ma queste difficoltà non hanno comunque impedito al popolo americano di esprimere la propria volontà democraticamente.
Venendo invece alla campagna elettorale, ciò che colpisce è l’assenza del populismo anti-istituzionale che soffia forte in Europa e in Italia. Ciò non significa che non ci siano nella politica americana proposte populiste, come si è visto anche nel recente passato con il movimento del Tea party; tuttavia, negli Stati Uniti quando si sceglie un presidente, questi deve avere la capacità di unire attorno a sé il maggior numero di cittadini e di gruppi sociali, e non di alimentare divisioni. Sia Obama che Romney hanno concentrato le loro proposte sui temi economici, del mondo del lavoro, dell’efficienza dei servizi pubblici, dell’immigrazione e del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, attaccandosi spesso duramente.
Se ci si chiede quali siano le ragioni dell’assenza “dell’antipolitica” negli Usa, mi limito a indicarne due: la prima è il sistema uninominale maggioritario, e presidenziale, che garantisce che dalle urne esca un risultato chiaro ed esalta anche il ruolo del parlamento, come dimostra il fatto che Obama, in questo caso, dovrà confrontarsi con una camera controllata dai repubblicani, senza che questo metta in discussione il diritto a governare 4 anni.
Se si guarda, invece, alla discussione in queste ore al senato italiano sulla legge elettorale, è chiaro come il risultato rischia di essere esattamente l’opposto; cioè che dalle urne non esca un governo chiaro e che siano i partiti, e non i cittadini direttamente, a decidere chi e come debba guidare il paese.
La seconda riguarda il finanziamento della politica; negli Usa si esclude, nei fatti, quello pubblico e si favorisce invece quello privato (56% delle donazioni a Obama sotto i 200 dollari), creando un sistema non esente da rischi o da critiche per assenza di trasparenza (circa 3 miliardi di dollari spesi e spesso attraverso comitati elettorali “indipendenti” i cosiddetti Pac non soggetti a controlli), ma che ha il merito di evitare che centinaia di milioni di euro di soldi vadano ai partiti, senza controlli seri e con gli abusi a tutti ben noti.
Tanto più quindi i partiti, e i candidati, agiscono nel rispetto della volontà degli elettori e non abusano di soldi pubblici, e tanto più ne viene riconosciuto e valorizzato il ruolo democratico e di rappresentanza. E se questo vale negli Stati Uniti, non può non valere anche in Italia.
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