
03/08/10
L'Opinione delle Libertà
Benedetto Della Vedova ha spiegato di essere uscito dal Pdl e di aver aderito al gruppo parlamentare dei finiani perché nel partito di Silvio Berlusconi non c'è democrazia interna. La sua, dunque, è stata una motivazione di tipo liberale. Come dire che non potendo far pesare e contare liberamente le proprie idee nel Pdl, si è rifugiato nel gruppo del Presidente della Camera nella convinzione di trovare all'interno di questa formazione politica quella libertà di cui non ha potuto godere nel movimento berlusconiano. A sua volta lo stesso Gianfranco Fini si è lamentato di essere stato espulso dal Pdl attraverso una procedura da partito autoritario e non da partito liberale di massa. Ma è proprio vero che la rottura di Fini (e di Della Vedova) sia dipesa da un problema di principio di libertà, quello che nel Pdl sarebbe negato e conculcato ed in un qualche altro partito apprezzato e salvaguardato al massimo? Ho troppo rispetto per l'onestà intellettuale di Della Vedova per ipotizzare che la sua uscita dal Pdl abbia avuto motivazioni diverse da quella del disagio per la scarsa democrazia interna. Ma vorrei invitare l'ex esponente radicale con cui condivido molte idee e con cui ho partecipato a molte battaglie, a riflettere sul dato inequivocabile che il cosiddetto cesarismo non può essere considerato una caratteristica esclusiva del partito di Silvio Berlusconi. Nessuno nega che sia stato il Cavaliere ad introdurre nel nostro paese il fenomeno tipico delle democrazie dell'alternanza bipolari che è quello della estrema personalizzazione dell'attività politica. E nessuno contesta che nell'introdurre una pratica da sistema presidenziale in un sistema politico ancora fermo al parlamentarismo proporzionalistico, Berlusconi ci abbia aggiunto la sua cultura da imprenditore "antipolitico", il suo carattere narcisista e la sua ricerca di stampo populista di un rapporto diretto con il proprio elettorato senza mediazioni di sorta. Ma il suo modello, che per la verità non era affatto sconosciuto ed aveva avuto nella Prima Repubblica precedenti illustri come quelli di Palmiro Togliatti, Amintore Fanfani, Bettino Craxi e non solo Giorgio Almirante ma soprattutto il suo delfino Gianfranco Fini, ha fatto scuola. Non esiste formazione politica italiana che non abbia o non cerchi disperatamente di avere un leader forte, riconoscibile, capace di avere un rapporto diretto con un elettorato che considera il moderno partito di massa dei novecento un reperto archeologico ormai superato. É non c'è una formazione politica italiana che applichi al proprio interno regole di democrazia ispirate ai principi liberali. Soprattutto nella selezione del personale politico il metodo universale che viene applicato è quello della cooptazione non per merito, capacità, intelletto ma sulla base dei criteri più bizzarri. Dalla fedeltà all'esigenza di dare una sistemazione ai propri famigliari fino al premio all'avvenenza o alle esigenze del reality politico. Non chiedo a Della Vedova se crede che nella sua nuova formazione politica il leader Gianfranco Fini rinunci alla sua vocazione autocratica che precede addirittura quella del Cavaliere. Gli chiedo se però. non crede che l'idea di partito sostenuta da Fini e dai suoi intellettuali di riferimento sia solo la riproposizione del modello archeologico della Prima Repubblica. Perché il vero dramma non è la rottura tra Berlusconi e Fini. E che da Fini e dai finiani non viene espressa alcuna idea innovatrice. Solo l'anticaglia. Perdi più profondamente antiliberale.
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