
Capita raramente, ormai che la forza del racconto scritto riesca a prevalere su quella, evocativa, delle immagini da cui siamo bombardati di continuo.
Ma succede nel caso di «Don Vito» (Serie bianca Feltrinelli, 18 euro), il libro dedicato da Francesco La Licata alla storia di Vito Ciancimino, il «sindaco dei corleonesi», l’uomo che governò Palermo e la Dc siciliana per oltre vent’anni e per conto della mafia. Visto in tv, Massimo Ciancimino, il figlio del sindaco che insieme al fratello Giovanni ha fornito all’autore una testimonianza preziosa, sembrava debole e incerto. Invece, nella lunga ricostruzione fatta con La Licata, dà vita a un affresco che non può non sembrare incredibile, se non fosse per il serio lavoro di inchiesta e di documentazione che lo accompagna.
La Licata avverte a ogni buon conto che tutti i fatti descritti sono oggetto di indagine della magistratura e saranno i giudici a vagliarne l’autenticità. Ma anche al di là dei singoli avvenimenti e dei numerosi protagonisti - tra cui figurano, manco a dirlo, Andreotti, Lima, il banchiere Calvi, Licio Gelli, oltre a tutta o quasi tutta la classe dirigente siciliana tra gli Anni Sessanta e Novanta - la lettura è straordinaria per un aspetto che verrebbe da definire antropologico.
E cioè il modo di vita, la perfetta convivenza tra politica e mafia in una città, un territorio in cui i due poteri non possono fare a meno l’uno dell’altro. Le consuetudini, il rispetto, le liturgie, le prese di distanza, i segreti, e poi naturalmente i soldi, un fiume di soldi, di «piccioli», come li chiamano loro. Vito Ciancimino ha solo qualche anno in più di Bernardo Provenzano, un ragazzo svogliato delle elementari e non ancora il capo di Cosa Nostra, quando viene chiamato a dargli lezioni private di matematica, nella Corleone della loro infanzia. Ne nasce un’amicizia che durerà tutta la vita, e una tacita divisione di ruoli fondata sulla regola che «cane non mangia cane», e che «per vivere nella giungla - come diceva Don Vito - devi essere capace di trattare con le belve».
Il sindaco è descritto dai figli come un padre dispotico e come una specie di satrapo che governa la città dal salotto di casa e da un tavolo attorno al quale siedono fianco a fianco, o uno dopo l’altro, politici, prelati, mafiosi, killer, leader nazionali, capi massonici, alti funzionari, altissimi magistrati, e naturalmente imprenditori. Come tutti quelli dotati di un potere assoluto, Ciancimino è pieno di nevrosi, ipocondriaco, frequenta medici svizzeri, è superstizioso e ricorre a uno zio medium, ha molte amanti, tra cui una cognata, che si fa scoprire: e quel giorno, pur di non essere colto in un momento di debolezza, Ciancimino, grazie a un amico costruttore, farà addirittura abbattere un muro dell’alcova, per penetrare in un altro appartamento e fuggire indisturbato.
Sembra un film. Il sindaco non ama gli animali, e un altro giorno, in un attacco d’ira, spalleggiato dai vigili urbani che sono la sua Securitate, sparerà, uccidendolo, a un cane entrato nel suo giardino. Nello stesso tempo Ciancimino non si sente della stessa razza dei capimafia. Anzi ama distinguersene, e coltiva a modo suo un’idea di primato della politica. I mafiosi, le «belve della giungla» sono per lui «l’altra sponda». La regola per conviverci è garantirgli negli affari «un’equa parte», ciò che Lima sintetizza nello slogan «mangia e fai mangiare». Scorrono gli anni della grande speculazione edilizia - e della trasformazione-devastazione della città che una volta si definiva «Palermo felicissima» -, scanditi dagli incontri tra i due amici corleonesi.
Una volta la settimana Don Vito vede Provenzano, eterno latitante che si aggira indisturbato sotto il falso nome di «ingegner Lo Verde», e a loro si aggiunge spesso un terzo, misterioso, personaggio, il «signor Franco», una sorta di 007 che non si capisce se dipenda dall’apparato di sicurezza nazionale o risponda direttamente alla Cia e agli americani.
E’ l’insieme di questi chiaroscuri, le diverse tonalità dell’enorme zona grigia che si allarga pian piano all’intero Paese, che conferisce, pur nella dimensione grottesca, una sua grandezza, e perfino un’inutile epica a tutta la vicenda. Non a caso, unico nel suo genere, e diversamente da Lima e da altre vittime eccellenti della guerra seguita alla pax mafiosa che lui stesso aveva garantito, Don Vito morirà nel suo letto-. Come un vero boss.
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