
26/08/10
Europa
Periodicamente si ripropone la questione del cosiddetto disagio cattolico verso la politica. Merita subito precisare che una misura di disagio è naturale e immanente alla coscienza cristiana in rapporto alla politica, in ragione della irriducibile differenza tra i due rispettivi orizzonti, l'uno metastorico, l'altro storico, segnato dall'esperienza del limite. Quella distinzione, quello scarto che si concreta nel principio di non appagamento (Moro) dei cristiani rispetto alla politica e ai suoi traguardi. Tutti i suoi traguardi. Tuttavia, il caso italiano conosce una sua peculiarità storica: il disagio dei cattolici si è acuito in coincidenza con l'esaurimento dello schema, teorico e pratico, dell'unità politica e del partito di riferimento privilegiato per i cattolici (la Dc), a valle della caduta del muro di Berlino che pesava come un'ipoteca, ingessandolo, sul sistema politico italiano.
La legittimazione e la pratica del pluralismo politico tra i cattolici, sulle prime, non sono state facili e senza problemi. Si trattava di interiorizzare un profondo rivolgimento culturale e pratico dopo una parentesi protrattasi per mezzo secolo. E tuttavia - su questo punto dissento dall'editorialista di Famiglia cristiana - tale evoluzione va letta positivamente come: 1) uno sviluppo naturale e obbligato dopo la lunga stagione della "guerra fredda interna"; 2) il ripristino della regola del pluralismo rispetto all'eccezione ancorché lunga dell'unità (i cattolici, come tutti, hanno opinioni e orientamenti politici diversi); 3) un contributo alla libertà/ universalità della Chiesa, alleggerita dal sospetto di figurare quale parte tra le parti della contesa politica, e, insieme, un contributo allo sviluppo della democrazia italiana quale democrazia competitiva e dell'alternanza.
Su queste riflessioni vi è un diffuso consenso. Ci si deve chiedere allora perché oggi si riparla di disagio cattolico. Se vogliamo chiamare le cose con il loro nome proprio, lo si deve mettere in relazione con la crisi del disegno berlusconiano. Perché questo è il tema politico di oggi. E perché, inutile tacerlo, settori della Chiesa e della gerarchia avevano scommesso su di esso. Taluni addirittura sposandolo in quanto conforme a una visione conservatrice e comunque ostile alla odiata sinistra. Altri secondo un approccio neogentiloniano che scambia consenso cattolico a una politica dichiaratamente altra da sé con la rassicurazione circa un pacchetto di interessi e valori parziali cari alla coscienza cristiana.
La crisi del berlusconismo politico e, per converso, la sua travolgente e devastante egemonia nel costume proprio a discapito di ciò che residua di un ethos cristiano in Italia dovrebbe interpellare la comunità cristiana. Inducendola a chiedersi se sia stato saggio un tale investimento e se abbiano pagato un silenzio e un'inerzia compiacenti verso una deriva etica e culturale prima che politica che ha condotto il paese alla condizione desolata di oggi. Un cenno in tal senso si rinviene in un precedente editoriale di Famiglia cristiana. Esso non si limitava alla denuncia dell'inaudito degrado della lotta politica cui assistiamo, ma giustamente chiamava in causa più estese responsabilità. Comprese quelle di agenzie culturali ed educative (senza escludere la Chiesa) che hanno commesso un peccato di omesso discernimento e vigilanza.
Eppure il caso Boffo (giornalista di sicuro non ostile a Berlusconi, come egli stesso notava incredulo e ferito all'atto delle sue dimissioni) avrebbe dovuto istruire chi di dovere. Istruirlo in più direzioni: che un potere autoritario non è mai un buon affare né per la società né per la Chiesa, che legalità, libertà di opinione e democrazia sono anch'essi valori non negoziabili, che l'etica deve informare anche i mezzi oltre ai fini della lotta politica, che il bene comune cui deve mirare la politica non può essere parcellizzato ma si concreta in una complessivo assetto della società nel quale la persona non sia ridotta merce, che la politica non può assecondare solo la pancia e il portafoglio. In sintesi, che l'attacco di gran lunga più insidioso e corrosivo alla visione personalistica e universalistica dell'uomo e della società viene esattamente da quel fronte che fa il verso compiacente alle gerarchie, che ci inonda di retorica sulle nostre tradizioni cristiane nel mentre ne recide le radici.
Resta per me un mistero come uomini di Chiesa abbiano potuto così a lungo esorcizzare una macroscopica evidenza: il berlusconismo quale vettore politico e culturale del neopaganesimo in Italia, cento, mille volte più potente e corrosivo dei referenti ideologici e politici del dichiarato laicismo.
Eppure ancor oggi mi sorprendo di dover fare osservare a pastori buoni ma smisuratamente ingenui o distratti come sia incomparabile l'influenza di un Pannella o di qualche epigono del laicismo di sinistra rispetto all'influenza esercitata dalle tv, dai rotocalchi e dallo stesso stile di vita incarnato da Berlusconi. A tale limite di miopia conduce il vizio idealistico di certa cultura cattolica? Un rilievo cui mi sento di aggiungerne un altro che riguarda noi cattolici che militiamo nel centrosinistra: meglio avere a che fare con compagni di viaggio (politico) che magari la pensano diversamente da noi cattolici su alcune questioni ma intellettualmente onesti, con i quali mettere in conto la fatica di un serrato confronto, anziché associarsi a non credenti inclini alla finzione e all'opportunismo.
Anche perché il laicismo sta ben dentro la società e non lo si vince con le scorciatoie della politica di scambio.
In tema di responsabilità, infine, non so trattenere un pensiero amaro e dichiaratamente di parte. Oggi la Cei invoca un più qualificato protagonismo di cattolici in «ruoli politici e istituzionali» di rilievo. L'auspicio evidentemente sottintende che non ci si contenta delle reiterate e ostentate professioni di fede di chi attualmente ci governa. Eppure non è molto che, pour cause, alla guida del governo ci stava un galantuomo, un cattolico con il senso dello stato che proprio dai vertici della Cei fu pervicacemente osteggiato, sino ad avallare la più nominalistica e pretestuosa delle polemiche sul "cattolico adulto", ben sapendo che in quell'espressione non vi era niente di presuntuoso e polemico ma solo la consapevolezza di una responsabilità indeclinabile, quella appunto che ora giustamente si invoca.
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