
23/04/10
L'Unità
Le ultime parole che si scambiano sul palco sono un dialogo muto, senza microfoni, affidato ai labiali. «Io non mi muovo. E che fai, mi cacci?», domanda Gianfranco Fini. «Ci sto pensando», risponde Silvio Berlusconi. In sala, l’Auditorium della Conciliazione, c’è un caos calmo e allibito. Quattrocentosettanta persone, il fior fiore del Pdl, cui è cascata la mandibola.
A parte Lamberto Dini, capacità di concentrazione a occhi chiusi superiore a qualsiasi urlo, Sandro Bondi è prossimo al mancamento, Giuseppe Pisanu ha l’occhio che brilla, Maurizio Gasparri è scivolato sulla sedia e fissa il telefonino, Gianni Alemanno sta seduto con i gomiti puntati sulle ginocchia, come si guarda una partita di calcio.
In onda, in effetti, sta andando il film che nessuno si sarebbe mai sognato di vedere davvero. C’è Fini che contesta Berlusconi, c’è Berlusconi che va fuori di sé perché questa è davvero l’unica cosa che non concepisce, c’è che tutto questo va in in diretta tv, e c’è soprattutto il partito tendenzialmente di plastica, modello per decenni, che si capovolge di botto - perché mancano la cultura e il tono delle normali liturgie congressuali - in un incrocio tra un congresso della Dc e Amici di Maria de Filippi. Casa Vianello, azzarda uno, precisando però a dire il vero Sandra e Raimondo battibeccavano meno di Gianfranco e Silvio. La questione della corrente di minoranza che Fini ieri ha di fatto costituito, nonostante sia stata votata una mozione che le nega la possibilità di esistere, diventa, si capisce da sé, secondaria: un effetto della valanga di ieri, pronto a trasformarsi nella causa della valanga di domani. Più forte di tutto ciò, è lo spettacolo che va in scena. Delle conseguenze di quel battibeccare sanguinolento, di quel che vuol dire da domani per il partito di cui dovrebbero essere i co-fondatori, infatti, Berlusconi sembra inconsapevole, e Fini noncurante. Le loro strade divergono eppure restan avvolti in un’unica bolla di sapone, la loro. Perché ripetono uno spartito noto, recitato già in tante occasioni dietro qualche porta, tra stucchi e arazzi e l’impassibile Gianni Letta.
Lo si vede dalle ricorrenze. «Gianfranco ti ho spiegato cento volte». «Berlusconi è inutile che mostri insofferenza». «Gianfranco non ti consento di attribuirmi cose che non ho mai detto». «Berlusconi lo so che questa cosa ti fa innervosire». «Gianfranco ma su questo stiamo lavorando tutti i giorni». «Berlusconi ti ricordi quella litigata a quattr’occhi, diciamolo sennò sembriamo matti...».
Ciascuno conosce dell’altro le ubbie, i punti deboli, le incomponibili distanze caratteriali e politiche che
confinano l’una con l’altra. Piccolo particolare, stavolta lo sceneggiano davanti alle telecamere. La concezione della giustizia e la linea del Giornale, quel che si intende per federalismo e per lealtà o tradimento, l’unità d’Italia e le correnti, i fratelli e gli ex colonnelli. Si tirano addosso persino La Russa, che finisce stritolato fra i due («Mi ha detto che sull’immigrazione, la Lega ha sostituito An», dice Berlusconi. «Bravo Ignazio, complimenti», lo gela Fini). Non saltano un punto dello spartito, ma soprattutto lo fanno senza ipocrisie. Sfrenati, entrambi, come non fossero più nemmeno loro capaci di nascondersi dietro il velo del Caro Silvio Caro Gianfranco, come se lo spazio per tentare un minuetto di forma fosse ridotto a zero. Se il risultato è lo stallo - personale e politico - il paradosso è che la giornata era cominciata secondo i miglior auspici del berlusconismo rampante.
Con i giornalisti fuori dalla sala, il Cavaliere pronto a rivendicare i successi, con Bondi pronto a salmodiare l’attacco alle «ambizioni personali» (di Fini) e la difesa di un partito «dove non ci sono servi». Con La Russa inutilmente trincerato dietro il ruolo di mera «cinghia di trasmissione», Mantovano pronto a parlare di «metastasi», ma riferendosi alle infiltrazioni mafiose, Matteoli incaricato di annunciare la prossima inaugurazione di «un lotto di 11 chilometri della Salerno-Reggio Calabria». Urrà. Il Cavaliere di tanto in tanto si esercita in coltellate a Fini, come quando spiega che cofondatore non è solo lui, perché ci sono anche: «Giovanardi e Rotondi, Baccini, Dini, Mussolini, Nucara, Caldoro, Biasotti, Buonocore».
Una liturgia che si rompe d’improvviso quando Fini, senza aspettare di essere annunciato, sale sul palco. «Voglio spiegare cosa sta accadendo, mentre qui c’è un atteggiamento puerile di chi vuol nascondere la polvere sotto il tappeto». Seguono 45 minuti di discorso con svariati colpi sotto la cintura, come quando Fini parla di «ben pagati» giornalisti o dice «davvero pensi che la mancata presentazione della lista nel Laziosia il complotto di qualche magistrato coi radicali?». Vuole spiegare che il suo dissenso non è tradimento, assicura che non intende mettere in discussione il governo, avanza qualche proposta e molte critiche. Tenta di portare il personale sul politico e poi dice: «Non si parla più di quote, Berlusconi farà ciò che vuole».
Ma il Cavaliere non fa questione di politica. «L’altro giorno tu mi hai detto che sei pentito di aver fatto il Pdl e che vuoi fare i gruppi autonomi», sbraita. «Facevo l’esempio della Sicilia», replica Fini, ma non importa. La giornata si chiude con un documento, votato da tutti tranne 11 e Pisanu, l’astenuto, nel quale si dice che le correnti «negano la natura stessa» del Pdl. «E allora noi che siamo», replicano i finiani, « un prodotto della fantasia?». Il problema, da oggi, riparte da qui.
A parte Lamberto Dini, capacità di concentrazione a occhi chiusi superiore a qualsiasi urlo, Sandro Bondi è prossimo al mancamento, Giuseppe Pisanu ha l’occhio che brilla, Maurizio Gasparri è scivolato sulla sedia e fissa il telefonino, Gianni Alemanno sta seduto con i gomiti puntati sulle ginocchia, come si guarda una partita di calcio.
In onda, in effetti, sta andando il film che nessuno si sarebbe mai sognato di vedere davvero. C’è Fini che contesta Berlusconi, c’è Berlusconi che va fuori di sé perché questa è davvero l’unica cosa che non concepisce, c’è che tutto questo va in in diretta tv, e c’è soprattutto il partito tendenzialmente di plastica, modello per decenni, che si capovolge di botto - perché mancano la cultura e il tono delle normali liturgie congressuali - in un incrocio tra un congresso della Dc e Amici di Maria de Filippi. Casa Vianello, azzarda uno, precisando però a dire il vero Sandra e Raimondo battibeccavano meno di Gianfranco e Silvio. La questione della corrente di minoranza che Fini ieri ha di fatto costituito, nonostante sia stata votata una mozione che le nega la possibilità di esistere, diventa, si capisce da sé, secondaria: un effetto della valanga di ieri, pronto a trasformarsi nella causa della valanga di domani. Più forte di tutto ciò, è lo spettacolo che va in scena. Delle conseguenze di quel battibeccare sanguinolento, di quel che vuol dire da domani per il partito di cui dovrebbero essere i co-fondatori, infatti, Berlusconi sembra inconsapevole, e Fini noncurante. Le loro strade divergono eppure restan avvolti in un’unica bolla di sapone, la loro. Perché ripetono uno spartito noto, recitato già in tante occasioni dietro qualche porta, tra stucchi e arazzi e l’impassibile Gianni Letta.
Lo si vede dalle ricorrenze. «Gianfranco ti ho spiegato cento volte». «Berlusconi è inutile che mostri insofferenza». «Gianfranco non ti consento di attribuirmi cose che non ho mai detto». «Berlusconi lo so che questa cosa ti fa innervosire». «Gianfranco ma su questo stiamo lavorando tutti i giorni». «Berlusconi ti ricordi quella litigata a quattr’occhi, diciamolo sennò sembriamo matti...».
Ciascuno conosce dell’altro le ubbie, i punti deboli, le incomponibili distanze caratteriali e politiche che
confinano l’una con l’altra. Piccolo particolare, stavolta lo sceneggiano davanti alle telecamere. La concezione della giustizia e la linea del Giornale, quel che si intende per federalismo e per lealtà o tradimento, l’unità d’Italia e le correnti, i fratelli e gli ex colonnelli. Si tirano addosso persino La Russa, che finisce stritolato fra i due («Mi ha detto che sull’immigrazione, la Lega ha sostituito An», dice Berlusconi. «Bravo Ignazio, complimenti», lo gela Fini). Non saltano un punto dello spartito, ma soprattutto lo fanno senza ipocrisie. Sfrenati, entrambi, come non fossero più nemmeno loro capaci di nascondersi dietro il velo del Caro Silvio Caro Gianfranco, come se lo spazio per tentare un minuetto di forma fosse ridotto a zero. Se il risultato è lo stallo - personale e politico - il paradosso è che la giornata era cominciata secondo i miglior auspici del berlusconismo rampante.
Con i giornalisti fuori dalla sala, il Cavaliere pronto a rivendicare i successi, con Bondi pronto a salmodiare l’attacco alle «ambizioni personali» (di Fini) e la difesa di un partito «dove non ci sono servi». Con La Russa inutilmente trincerato dietro il ruolo di mera «cinghia di trasmissione», Mantovano pronto a parlare di «metastasi», ma riferendosi alle infiltrazioni mafiose, Matteoli incaricato di annunciare la prossima inaugurazione di «un lotto di 11 chilometri della Salerno-Reggio Calabria». Urrà. Il Cavaliere di tanto in tanto si esercita in coltellate a Fini, come quando spiega che cofondatore non è solo lui, perché ci sono anche: «Giovanardi e Rotondi, Baccini, Dini, Mussolini, Nucara, Caldoro, Biasotti, Buonocore».
Una liturgia che si rompe d’improvviso quando Fini, senza aspettare di essere annunciato, sale sul palco. «Voglio spiegare cosa sta accadendo, mentre qui c’è un atteggiamento puerile di chi vuol nascondere la polvere sotto il tappeto». Seguono 45 minuti di discorso con svariati colpi sotto la cintura, come quando Fini parla di «ben pagati» giornalisti o dice «davvero pensi che la mancata presentazione della lista nel Laziosia il complotto di qualche magistrato coi radicali?». Vuole spiegare che il suo dissenso non è tradimento, assicura che non intende mettere in discussione il governo, avanza qualche proposta e molte critiche. Tenta di portare il personale sul politico e poi dice: «Non si parla più di quote, Berlusconi farà ciò che vuole».
Ma il Cavaliere non fa questione di politica. «L’altro giorno tu mi hai detto che sei pentito di aver fatto il Pdl e che vuoi fare i gruppi autonomi», sbraita. «Facevo l’esempio della Sicilia», replica Fini, ma non importa. La giornata si chiude con un documento, votato da tutti tranne 11 e Pisanu, l’astenuto, nel quale si dice che le correnti «negano la natura stessa» del Pdl. «E allora noi che siamo», replicano i finiani, « un prodotto della fantasia?». Il problema, da oggi, riparte da qui.
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