
Come il venditore di frutta tunisino che con il suo sacrificio diede inizio alle intifade arabe di cui quella siriana è solo l’ultimo (per ora) più cruento episodio, anche Kofi Annan si «immola» simbolicamente per smuovere i due fronti affinché trovino un punto di intesa.
Anche se formalmente è a loro che muove le critiche più dure, gli interlocutori cui si rivolge non sono Assad e i ribelli, i duellanti di questa tragedia sempre più grandguignolesca, ma i loro padrini internazionali: Russia e Cina da un lato e le potenze occidentali dall’altro. È al Consiglio di Sicurezza, oltre che al Segretario Generale Ban Ki-moon che Kofi Annan risponde, del resto, e ha visto troppe crisi internazionali quando era lui a occupare lo scranno più alto del Palazzo di Vetro per non sapere che il gioco dei veti incrociati e del rimpiattino condito da accuse reciproche può durare in eterno. Bosnia docet. Con la scelta di queste plateali dimissioni, da inviato speciale dell’Onu in Siria, Kofi Annan invia due messaggi distinti. Alla Russia (e alla Cina) manda a dire che continuare a ragionare come se il mondo fosse tornato all’800, in cui il principio di sovranità e il suo corollario della non ingerenza regnavano incontrastati, è una pura follia: che la storia forse condannerà ma che il futuro farà probabilmente pagare a chi vi si abbarbica. Agli occidentali lancia una corposa accusa di ipocrisia: ma come, fino a ieri Assad non era un capo di Stato decisivo per la stabilità del Levante? Chissà, forse rivive le stesse sensazioni che precedettero l’inizio della guerra contro Saddam Hussein nel 2003: un pezzo da galera, senza dubbio, eppure per molto tempo blandito e corteggiato dalle potenze occidentali.
La soluzione diplomatica riceve dunque un fiero colpo. Eppure non c’è alle viste nulla di meno probabile di un intervento militare sotto l’egida dell’Onu. Sia Assad sia i ribelli sono ancora convinti di poter regolare per conto proprio la vicenda. E il fatto, tragico, è che hanno ragione. E comunque a nessuno dei contendenti può interessare uno stallo garantito da una forza di interposizione. Lo scenario che si profilerebbe di fronte all’invio di truppe nell’area sarebbe da incubo, con la guerra che si svolge casa per casa a Damasco come ad Aleppo, ad Hama… qualcosa che ricorderebbe molto di più la battaglia per Falluja, nel triangolo sunnita iracheno, che l’intervento in Kosovo o in Libia. Oltretutto, un qualunque intervento esterno non farebbe che accelerare la «cattiva internazionalizzazione» del conflitto, quel contagio che già ora si fatica a tenere a freno. A Tripoli, nel Libano settentrionale, sciiti e sunniti locali si stanno sparando addosso da settimane, mentre si fanno insistenti le voci di un coinvolgimento delle milizie di Hezbollah negli scontri in Siria e il loro capo Nasrallah rilascia dichiarazioni dissennate. Nel frattempo le frontiere turca e giordana hanno già registrato i primi morti, l’Iran ha formalmente dichiarato che non consentirà che la Siria sia occupata da forze straniere e Israele ha il dito poggiato sempre più nervosamente sul grilletto. Insomma, 17.000 morti in 17 mesi sono un numero enorme, ma un intervento esterno rischia di farne raddoppiare il numero in poche settimane.
Quel poco che si può fare è lavorare affinché le defezioni dei vertici del regime aumentino fino al punto da provocarne la caduta o per lo meno la fuga di Assad. Ma le fucilazioni dei sostenitori del rais ad opera dei ribelli (le cui immagini han fatto il giro del mondo in questi giorni) non incoraggiano certo i quadri intermedi a seguire l’esempio degli alti papaveri. La cosa certa è che, avanti di questo passo, la Siria cesserà presto di esistere e non è neppure detto che non si possa arrivare a una situazione di endemica «guerra civile a bassa intensità» con la spartizione di fatto del Paese in diversi potentati resi religiosamente omogenei con la violenza, come accadde in certe fasi della lunga guerra civile libanese. Si dovesse malauguratamente giungere a un simile esito, le grandi potenze potrebbero decidersi a operare uno sforzo congiunto pur di mettere in sicurezza l’arsenale non convenzionale siriano: distruggendolo, recuperandolo, comprandolo… e non sarebbe comunque né facile né indolore.
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