
02/11/09
America Oggi
Il nuovo ambasciatore d’Italia a Washington è Giulio Terzi di Sant’Agata, il diplomatico che intervistammo un anno fa, appena ottenne l’incarico di guidare la Missione italiana al Palazzo di Vetro dell’Onu. Terzi rispose alle domande di America Oggi proprio la mattina della storica vittoria presidenziale di Barack Obama e subito mostrò di non nutrire dubbi: con quel nuovo presidente Usa sarebbe cambiata anche l’Onu.
Solo un anno dopo, ecco che da New York il diplomatico di origini bergamasche, già ambasciatore d’Italia in Israele, finisce per essere il prescelto dalla Farnesina per sostituire l’ambasciatore Giovanni Castellaneta nella più importante sede diplomatica italiana nel mondo. Terzi aveva promesso ad America Oggi la sua prima intervista da ambasciatore italiano a Washington. Promessa mantenuta. Eccoci così nell’ufficio della moderna ambasciata d’Italia, ad appena sette giorni dalla conclusione delle grandi celebrazioni della Niaf che hanno chiuso il mese della cultura italiana. Una settimana molto intensa quella appena trascorsa da Terzi nella sua nuova sede, in cui, da neo-ambasciatore, ha subito dimostrato di volersi porre in una relazione intensa e costruttiva con la comunità italoamericana della capitale.
Cominciamo con gli italo-americani. La si può definire una lobby quella che ha trovato qui a Washington?
«A me sembra che sia molto di più. È una componente della società americana ed è al tempo stesso una piattaforma unica per la proiezione dell’Italia. E’ quindi molto di più di una lobby, intesa come gruppo di influenza o di tutela di interessi particolari. Gli "Italiani d’America" sono una straordinaria risorsa per rappresentare un’Italia protagonista sulla scena internazionale.
Gli ideali e i valori di cui la nostra comunità e la nostra cultura sono portatrici sono parte costitutiva della realtà americana. Affondano le radici nell’Illuminismo del ‘700. Trovano spazio nella stessa Dichiarazione di Indipendenza e attraversano la storia e la società americana dell’Ottocento. Uno dei progetti a cui stiamo pensando è di poter celebrare questo intreccio di cultura, storia e politica in occasione della ricorrenza, nel 2011, del 150mo anniversario dell’Unità d’Italia.
Anni fa noi lottavamo contro gli stereotipi e lamentavamo una "ingessatura" della nostra immigrazione su posizioni e mestieri "tradizionali". Oggi questo è superato, attraverso un cammino acceleratosi negli ultimi anni. Mi è bastato vedere il livello dei partecipanti al gala della Niaf e la composizione del suo Board, dove oggi trovano ampio spazio le catergorie fortemente innovative della società americana. Il 12 ottobre scorso, nel proclama per il Columbus Day, il Presidente Obama ha affermato che gli italiani d’America "contribuiscono in maniera eccezionale all’identità di questo Paese: sono modelli di riferimento, innovatori e straordinari uomini delle istituzioni"».
Nel sito internet dell’Ambasciata si legge degli incontri che lei ha avuto con i direttori degli istituti di cultura e si legge anche di "sistema Italia". Questo appare come un pacchetto unico, di economia, tecnologia e cultura, da promuovere tutto insieme. È così?
«Assolutamente sì. Ottobre è il mese dell’Italia, e degli italiani, in America. Le celebrazioni del Columbus Day, le riunioni della Niaf, la settimana della lingua italiana nel mondo, e soprattutto le missioni di membri del governo come il Ministro delle Attività Produttive Scajola e il Ministro della Difesa La Russa hanno confermato, sin da queste prime settimane del mio mandato, che il modo migliore per ottenere risultati resta quello di fare un gioco di squadra. Ho voluto che la riunione in Ambasciata dei Consoli e dei Direttori degli Istituti di Cultura, costituisse la premessa anche per preparare la vera e propria "missione di sistema" negli Stati Uniti della prossima primavera. Il Presidente del Consiglio aveva chiesto nell’agosto 2008 che le ambasciate e tutti i principali attori del sistema Italia lavorassero insieme sulla base di obiettivi condivisi. Se questo è sempre necessario, lo è ancora più in un paese come gli Stati Uniti. Un’agenda unitaria può rafforzare la proiezione del Paese in tutti in campi, politico, economico, scientifico; deve coinvolgere il mondo imprenditoriale, le organizzazioni che si occupano di sostegno della cooperazione scientifica, le aziende, senza trascurare il contributo del mondo associativo italoamericano».
L’insegnamento della lingua Italiana è una "spina", chiamiamola così, che fa male e agita il dibattito: stiamo parlando dell’Ap program, della mancata riconferma del programma di advancement place per le scuole superiori, conquistato solo pochi anni fa e che ora sembra compromesso. Il suo predecessore, l’ambasciatore Castellaneta, sembrava essersi preso a cuore questo problema. Lei che idea si è fatto? Sono stati commessi degli errori e da parte di chi?
«È la mia priorità. La lingua è il primo veicolo di promozione per l’Italia: promozione culturale, ma anche promozione economica. Mi è piaciuta molto una espressione che ho sentito usare in questi giorni: l’italiano deve essere visto dai giovani, dai teenager come qualcosa di ‘cool’, di bello, utile e arricchente per il proprio futuro. Vi è forte domanda di italiano negli Stati Uniti. Dobbiamo creare le condizioni perché a tale domanda risponda un’offerta adeguata. L’ho sottolineato nella riunione di coordinamento con i Consoli e con i Direttori degli Istituti di Cultura; l’ho ripetuto ai presidenti delle principali associazioni italo americane che ho incontrato nella sede della Niaf a Washington. Ritornando all’approccio di sistema, ritengo che la diffusione della lingua italiana negli Stati Uniti debba essere obiettivo condiviso di tutti. Si tratta di una "joint partnership" tra autorità di governo e mondo associativo, da avvertire con la stessa intensità. Occorre far reinserire l’italiano nell’Advanced Placement Program e nel sistema dei crediti formativi riconosciuti dalle università americane. E’ un obiettivo centrale che il governo ha confermato in occasione delle recenti visite di nostri Ministri negli USA».
Ambasciatore, c’é un altro problema, che forse in questo momento è il principale per la sospensione dell’italiano dall’Ap program: la mancanza di un numero sufficiente di insegnanti qualificati per la preparazione degli studenti a questo esame molto difficile. La ragione della sospensione da parte del College Board dell’Ap Italian è economica perché non ci sono stati abbastanza studenti ad affrontare l’esame e questo comporta appunto il problema finanziario del mantenimento dell’esame, dato che ogni programma si autofinanzia con la quota che ogni studente paga per sostenere il test. Ma gli studenti di italiano appunto non erano sufficenti perché non c’erano nelle scuole americane abbastanza insegnanti qualificati per prepararli. Allora, forse chi ha voluto l’Ap subito non dovrebbe fare un po’ di autocritica per aver, come dire, messo il carro davanti ai buoi? Non bisognava prima investire sulla preparazione degli insegnanti per poi entrare nell’Ap?
«Sono d’accordo. Dobbiamo lavorare con le singole università per formare insegnanti di italiano che aiutino a soddisfare la domanda di italiano da parte degli studenti. L’Università del Maryland ha appena sottoscritto, in Ambasciata, un accordo con l’Università per gli Stranieri di Perugia, per la certificazione di insegnanti di italiano. La disponibilità di insegnanti preparati è il terzo pilastro della nostra strategia, insieme al finanziamento dell’APP e all’azione per promuovere un’ampia partecipazione di studenti alle classi di italiano. Ho incoraggiato gli Istituti di Cultura e i Consoli Generali ad agire in stretto raccordo con i lettori nelle università e istituzioni accademiche e a far capire che vi é un sostegno concreto alla promozione dell’italiano. Sono ammirato nel costatare quanto la comunità italiana d’America abbia fatto in questi anni in questo campo, di fronte a una situazione finanziaria difficile e a numeri di partecipazione alle classi ancora poco incoraggianti. Quando l’APP iniziò circa sette anni fa gli iscritti erano poco più di mille. Negli ultimi due anni si è assistito ad un aumento di circa il 40%. Sono perciò fiducioso: si può immaginare che la lingua di Dante e di Galileo non sia competitiva in un mondo o in una cultura che vuole aprirsi alla globalizzazione?
Il collegamento tra lingua e cultura scientifica è la premessa di un sistema di insegnamento che sia di qualità e che interessi vaste categorie di studenti. L’italiano è un veicolo verso la cultura di domani e le conoscenze tecnologiche. Ne ho avuto un buon esempio nell’ambito del Global Health Forum, organizzato in Ambasciata, premiando due personalità del mondo della ricerca americana: la professoressa Alberini e, attraverso la figlia, il compianto Michael Stern, due simboli di una scienza che parla italiano. Se per i giovani, come ho detto, l’italiano è "cool", per il mondo della ricerca la nostra lingua deve diventare sempre più uno strumento di globalizzazione e di competitività».
Proprio la scorsa settimana all’Istituto italiano di Cultura c’è stata la festa di addio del direttore Renato Miracco, alla scadenza del mandato di due anni non gli è stato rinnovato il contratto. L’autorevole critico d’arte, è stato un direttore-manager efficace e competente, che ha dato lustro all’istituto di cultura di New York frequentato finalmente e sopratutto dagli americani. Non pochi frequentatori dell’Istituto si sono chiesti: ma perché non è stato riconfermato un direttore così bravo? Ambasciatore, quale è il criterio utilizzato dal Ministero degli Esteri per scegliere i direttori per gli istituti di cultura che dovrebbero rilanciare il "sistema Italia"?
«Renato Miracco è stato un ottimo direttore. Ero a New York nell’ultimo anno e posso testimoniarlo. È per questo che sono certo che, alla scadenza naturale del suo mandato, l’Amministrazione saprà riconoscere i meriti della sua azione e, magari, sfruttare e valorizzare proprio negli Stati Uniti la sua esperienza. Come vede sulla mia scrivania ho un suo catalogo di Morandi, di cui Miracco è grande esperto. Ed è una positiva coincidenza che opere di Morandi siano state scelte dal Presidente Obama per essere inserite nella collezione esposta alla Casa Bianca».
Terzi non aggiunge di più, ma intuiamo che a Miracco sta per arrivare un incarico di prestigio, magari proprio a Washington. Molto contenti per lui, continuiamo a pensare che l’Istituto di New York e il suo pubblico si meritavano altri due anni di "Speedy" Renato. Non resta che sperare nella nuova nomina. L’Ambasciatore non ci fa il nome, ma si sa che sarà il professore Riccardo Viale.
Ambasciatore dalla cultura spostiamoci alla politica internazionale e quindi ai rapporti bilaterali Usa-Italia. Nell’intervista con noi di un anno fa, lei auspicava più Europa alle Nazioni Unite, soprattutto riguardo alla riforma del Consiglio di Sicurezza. Ora che lei è arrivato a Washignton, nei rapporti con gli Stati Uniti, si sentirebbe di fare lo stesso auspicio? Anche nei rapporti con la Casa Bianca c’è più bisogno d’Europa, oppure all’Italia conviene coltivare gelosamente il suo rapporto bilaterale?
«Tra i miei obiettivi vi è quello di contribuire a rafforzare a Washington la percezione che l’Europa è un partner fondamentale e indispensabile in politica estera, nella difesa e nell’economia. In questo senso il passaggio da New York a Washington per me è stato facile: al Palazzo di Vetro dicevo "diamoci da fare per avere più Europa alle Nazioni Unite, a cominciare dal Consiglio di Sicurezza". A Washington siamo interessati ad accrescere la dimensione europea nei rapporti con gli Stati Uniti. Molto dipende dalla rapidità con la quale potranno essere attuati gli strumenti previsti dal Trattato di Lisbona, dato che probabilmente per diversi anni si assisterà più ad un processo di integrazione che non di sostituzione delle politiche estere nazionali.
Lo stato delle relazioni bilaterali è eccellente. Negli ultimi mesi vi sono stati numerosi incontri politici ai massimi livelli -a Roma, all’Aquila, a New York e a Pittsburgh- che hanno dato il senso di un’amicizia estremamente solida fondata su un’affidabilità e un’intesa reciproca: un rapporto tra amici che condividono una visione del mondo, imperniata sul dialogo e sul multilateralismo. A fine settembre il Presidente Berlusconi è stato l’unico leader occidentale invitato dal Presidente Obama a partecipare, a New York, ad una riunione dei principali contributori alle operazioni di pace, dove noi figuriamo come primi tra i paesi G8 e dell’Unione Europea. Cordialità, amicizia e collaborazione concreta caratterizza il settore della difesa, come dimostrato dalla visita a metà ottobre del Ministro della Difesa La Russa.
Vi è poi stata la visita del Ministro dell’Agricoltura Zaia, che ha potuto chiarire certi malintesi che erano emersi per alcuni prodotti tipici e avviare un utile meccanismo di consultazione.
Ma vorrei citare un altro esempio, l’ultimo in ordine di tempo, ma significativo per spiegare meglio ai lettori di America Oggi la forza, la profondità e la qualità delle relazioni tra i nostri due Paesi. Un esempio che testimonia come queste relazioni tocchino tutti gli aspetti della vita e della società in Italia e negli Stati Uniti, le istituzioni e la gente. Pochi giorni fa il presidente della Corte Suprema Roberts, due giudici della corte Scalia e Alito, il segretario per la Homeland Security Napolitano, il vice direttore dell’FBI, il giudice federale Gajarsa si sono riuniti con un qualificatissimo pubblico in una sala della Corte Suprema per ricordare la figura e l’opera di un grande italiano che ha fatto onore al suo paese e che ha lasciato un straordinario patrimonio di insegnamento e di esempio anche negli Stati Uniti, il giudice Giovanni Falcone. In quella sala erano presenti legislatori, personalità di governo, magistrati, uomini e donne delle forze dell’ordine, normali cittadini, giornalisti italiani e americani per testimoniare la profondità dei rapporti tra Italia e Stati Uniti.
Alla Corte Suprema non si è solo ricordata la figura di un eroe che con la sua visione ha creato una rete di magistrati e di poliziotti impegnati insieme a combattere il crimine organizzato e, oggi, il terrorismo. Ricordando Falcone, le più alte cariche di questo paese, alla presenza del sottosegretario Enzo Scotti, che all’epoca di Falcone era Ministro dell’Interno e alla presenza dell’On.le Martelli, allora Ministro della Giustizia, hanno anche ricordato la tradizione italiana indirizzata al rafforzamento dei diritti fondamentali, della libertà personale: in una parola, dello Stato di diritto. Valori che sono alla base delle relazioni e dell’amicizia tra Italia e Stati Uniti. La sicurezza interna dei nostri paesi è caratterizzata da un’intensissima collaborazione, così come avviene per la nostra sicurezza sul piano internazionale».
In questo rapporto bilaterale Usa-Italia, che sentiamo ripetere essere perfetto, ci sarà pur qualche problema non risolto che vi tiene in apprensione, no?
«Un problema così evidente come quello che avevo a New York, di evitare una riforma del Consiglio di Sicurezza che escludesse l’Italia dal gruppo dei paesi che contano credo, almeno per il momento, di non averlo. È indubbio che ogni giorno in una Ambasciata si presentano piccole difficoltà che via via vanno risolte, ma sinceramente da quando sono qui non riesco a vedere nessuna questione di maggiore portata che possa intralciare i rapporti tra i nostri due paesi. Semmai assisto al consolidarsi di identità di vedute».
L’anno scorso, nella nostra intervista all’Onu, lei ci dichiarò: "Tenere l'Italia fuori dal 5+1 è stata una decisione poco oculata. Se fossimo stati inseriti nel gruppo, avremmo potuto dare un contributo molto sostanziale. Non solo per i nostri rapporti economici, ma per la lunga storia delle nostre relazioni con gli iraniani..." L’Italia resta fuori dal gruppo che tratta con l’Iran, composto da i membri permanenti del CdS dell’Onu + la Germania. Perché? L’Italia mostra la sua insoddisfazione su questo agli Usa?
«L’insoddisfazione c’è. È un’insoddisfazione che riguarda i risultati. Noi abbiamo riserve sul gruppo "5+1" perché riteniamo, anzitutto, che tale formato in ben sei anni non abbia prodotto progressi significativi. Certo la parte iraniana ha cercato di prendere tempo, ma uno dei principali motivi per i quali il formato negoziale non si è rivelato efficace è stata l’esclusione di partner di rilievo dell’Iran, come appunto l’Italia».
Ma perché la Germania sì e l’Italia no?
«Per dirla tutta, la Germania tende anche a vedere nel 5+1 un riflesso delle sue aspettative di far parte di una "governance" nella sicurezza che la assimili ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Una rapida integrazione delle politiche estere europee ridimensionerebbe queste pulsioni nazionali. Ma tornando al 5+1 noi abbiamo sempre detto che questo formato non è adeguato. Se noi diamo contributi così importanti alle missioni di pace, se abbiamo rapporti consolidati da così tanto tempo con la società iraniana, se contiamo in Medio Oriente, allora l’Italia non può essere esclusa da questa trattativa. In ogni caso, ripeto, non è solo una questione di formati, ma di risultati che il formato attuale non riesce a produrre».
Tutti pensano che gli Usa abbiano le chiavi per la porta di ingresso in questi gruppi ristretti. Lei mostrerà al Segretario di Stato Hillary Clinton questa insoddisfazione dell’Italia per venire esclusa dalla trattativa con l’Iran?
«La nostra posizione è ben conosciuta a Washington. Non si tratta di un problema che riguardi questa capitale più delle tre capitali europee interessate alla questione. È una constatazione che ho fatto da diversi anni. Al Dipartimento di Stato mi sembrano esservi elementi di continuità su questo specifico argomento rispetto all’amministrazione precedente. E non avverto, qui, insormontabili ostacoli nei nostri confronti».
Insomma il problema di escludere l’Italia non è a Washington ma in Europa?
«Il problema non è l’esclusione o l’inclusione di questo o di quell’altro paese, quanto piuttosto la capacità di ognuno di contribuire al risultato che auspichiamo: il rispetto delle regole internazionali e delle decisioni del Consiglio di Sicurezza da parte dell’Iran in materia di non proliferazione nucleare».
L’Italia è andata via dall’Iraq, ma è rimasta a fianco degli Stati Uniti in Afghanistan. Giusto così?
«La stabilità dell’Afghanistan rientra tra le priorità italiane. È stato giustamente detto che non si tratta di una guerra di scelta ma di necessità. La parola guerra forse è inadatta, è sicuramente un "peacekeeping robusto" del quale siamo parte rilevante nell’interesse fondamentale del nostro paese».
L’Ambasciatore Castellaneta sfoggiava spesso la sua amicizia con Condoleeza Rice, conosciuta quando lui era il consigliere diplomatico a Roma del Presidente del Consiglio. Ai tempi dell’amministrazione Bush, era un bell’asso nella manica per la diplomazia dell’Italia. Con l’amministrazione Obama, il nuovo ambasciatore italiano ha forse qualche amicizia particolare che potrebbe essere molto utile?
«Sono rimasto colpito dall’apertura e dalla disponibilità a stabilire rapidamente rapporti informali e, in alcuni casi già di amicizia, emerse con diversi interlocutori che ho incontrato in queste settimane. La speaker Nancy Pelosi è stata molto cordiale e direi affettuosa nel dare il benvenuto a me e ad Antonella in occasione del Gala della Niaf. Francamente, credo che per l’Ambasciatore d’Italia a Washington l’ultima difficoltà sia quella di trovare amici. C’è una naturale simpatia e stima verso l’Italia e l’Ambasciata, da parte di tutti. Sono convinto che ciò mi aiuterà molto nel lavoro».
© 2009 Radicali italiani. Tutti i diritti riservati