
Claudio Scajola si dimette, e dà in pratica l’addio alla vita politica, in meno di dieci minuti. Tanto impiega il ministro dello Sviluppo economico per leggere davanti ai giornalisti che affollano la sala "parlamentino" del ministero la «comunicazione» che si rigira tra le mani. «Per difendermi non posso continuare a fare il ministro», annuncia.
Così, a quasi otto anni dal suo primo addio al governo, quando una frase su Marco Biagi gli costò la poltrona del Viminale, Scajola getta la spugna un’altra volta. A travolgerlo, adesso, è quella che lui bolla come «una campagna mediatica senza precedenti», costruita «su un’inchiesta giudiziaria nella quale non sono indagato».
Ci ha pensato ancora una notte, Scajola. Poi, tra le lacrime, ieri mattina ha deciso di dire basta. Una decisione maturata il giorno prima, quando il ministro ha preferito anticipare il suo rientro dalla missione in Tunisia pur di non restare altre ventiquattr’ore su una graticola che stava diventando insopportabile.
Per lui e per il governo. «Mi ritrovo la notte e la mattina a inseguire la rassegne stampa sulle televisioni per capire di cosa si parla», spiegherà davanti a taccuini e telecamere. Dalla maggioranza fanno filtrare la versione che fino all’ultimo il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha provato a farlo desistere. L’ultima volta ieri mattina, poco prima che Scajola uscisse di casa, in compagnia dei figli Lucia e Pier Carlo, per recarsi in via Veneto, al ministero. In realtà, il colloquio c’è stato con Gianni Letta, non col Cavaliere. Niente da fare, comunque. «In questa situazione che non auguro a nessuno mi devo difendere», scandisce poco dopo aver varcato l’ingresso del "parlamentino". Completo blu, cravatta a pois, Scajola si arrende ad una «campagna mediatica che non dà respiro, che non dà tregua». «Sto vivendo una situazione di grande sofferenza», rivela. I figli, in piedi, sono accanto a lui insieme ai suoi collaboratori più stretti.
Il ministro incassa («ho imparato nella mia vita che la politica dà sofferenze»), ma non rinuncia a difendersi da un’inchiesta, ribadisce, da cui è «convinto di essere estraneo». E però, poiché lui considerala politica «un’arte nobile, con la ‘P" maiuscola, per esercitarla bisogna avere le carte in regola e non avere sospetti». In primis quello di «abitare in una casa pagata in parte da altri». Scajola conferma di non sapere nulla dei 900mila euro in assegni circolari versati alle venditrici dell’immobile oltre all’importo dichiarato di 610mila euro: «Se dovessi acclarare che l’abitazione nella quale vivo a Roma fosse stata pagata da altri senza saperne io il motivo, il tornaconto, l’interesse, i miei legali eserciteranno le azioni necessarie per l’annullamento del contratto di compravendita». A "Porta a Porta", invece, si è spinto a dire che «quegli assegni sono una trappola». E ha ricostruito la vicenda: «Io ho incontrato Zampolini una o due volte, cercavo casa e avevo interessato varie agenzie. Balducci si rivolse a Zampolini e me ne furono mostrate due o tre». E poi continua: «Se incontro per strada Zampolini non me lo ricordo. Non sapevo che lavorasse per Anemone. Però mi mostrarono questa casa, per me era uno sforzo. È la prima casa che ho comprato in vita mia. Era un affare vantaggioso. Balducci mi disse: "è un ottimo affare, le due vogliono realizzare".
Per l’ormai ex ministro il passaggio degli assegni non è avvenuto né con lui, né con il notaio: «Se ho una colpa, è quella di essere stato troppo superficiale».Il resto della giornata l’ormai ex ministro lo passa nel suo ufficio. Riceve al telefono le chiamate di solidarietà, sistema le carte da portare via e scrive la lettera di dimissioni. A Napolitano, in quel momento a Genova, Scajola telefona per comunicargli la decisione. Il
ministro dimissionario esce solo per incontrare Berlusconi a Palazzo Chigi. Il breve colloquio serve a sancire l’addio. Berlusconi non fa resistenza e fa di ramare una nota in cui ringrazia Scajola.
Poi l’ex ministro torna a via Veneto. Un’ultima sistemata alle carte, un saluto allo staff («sono rasserenato, ho un peso in meno») e quindi il ritorno a casa. Quella di Imperia, in Liguria.
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