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Vince David Cameron, il conservatore. È quel che annunciano i primi exit polls, i sondaggi all’uscita dei seggi.
La vittoria appare risicata, poiché non gli dà la maggioranza assoluta, ma mancandogli soltanto diciannove seggi, meno del previsto, per raggiungere i 326 necessari, non dovrebbe essergli difficile trovare un appoggio diretto indiretto nei partiti minori, irlandesi e scozzesi. Se questi dati si confermano il successo dei conservatori è indiscutibile. Anche perché i laburisti (255 seggi) e i liberal democratici (59 seggi) non costituiscono insieme un’alternativa non raggiungendo la maggioranza assoluta.
La voglia di cambiare sembra emergere dunque dal tormentato voto inglese. Il leader conservatore prevale sui diretti avversari, il laburista Gordon Brown, il primo ministro uscente (che aveva345 seggi nel Parlamento precedente), e il liberal democratico Nick Clegg, il giovane prodigio rivelatosi durante i dibattiti televisivi (che però non ha convalidato il successo nelle urne). Se la tendenza si conferma il primato laburista si conclude in queste ore. Conquistato tredici anni fa da Tony Blair, che lo ha monopolizzato per tre elezioni consecutive, esso muore con Gordon Brown. Un leader sulla soglia dei sessant’anni che si è battuto fino all’ultimo con una tenacia ammirevole e un’indubbia competenza, ma con una capacità di comunicare on sempre adeguata alla civiltà delle immagini. Il peso degli anni di governo l’hanno messo in una situazione di svantaggio rispetto ad avversari giovani e telegenici. I quali incarnano, come è giusto, oltre che per le loro qualità, il desiderio di rinnovamento. Cameron lo ha superato nei voti, e Clegg gli ha sottratto quelli indispensabili. E non sarà facile per Brown restare alla testa del partito. 190 seggi perduti gli saranno politicamente fatali. Anche se il Labour è ben lontano dall’essere declassato in terza posizione, e resta largamente superiore al partito liberal democratico.
Adesso il potere sembra sul punto di passare nelle mani del partito conservatore rinnovato dal giovane Cameron. Un aristocratico che ha scarse affinità, per l’estrazione sociale e per le idee, con il suo grande predecessore, Maggie Thatcher, la più famosa e discussa figura del conservatorismo britannico degli ultimi decenni. Non penso del resto che egli si consideri, né desideri apparire, come un suo autentico erede. Cameron parla, forse in egual misura per opportunità e convinzione, di un conservatorismo sociale, che conosce la "compassione". Quest’ultima espressione non si addiceva certo alla Thatcher, la "dama di ferro" che governò dal 1971 al 1990, ristrutturando con severità, durezza ed efficacia la società inglese. Il New Labour di Tony Blair e di Gordon Brown realizzò i suoi vistosi successi economici anche grazie alle sue radicali e non sempre popolari riforme.
I dati noti fino a questo momento annunciano la fine di un’epoca. Ed è con un altro stile, rispetto al passato recente, che i conservatori si avvicinano al potere. La Thatcher era di estrazione borghese, míddle class, come l’effimero successore che fu John Major. E come del resto Gordon Brown. Cameron appartiene alla banda di Notting Hill». E Notting Hill è il quartiere privilegiato dove le case leccate con colori pastelli sono abitate da aristocratici, con titoli nobiliari e diplomi conseguiti a Eton, dove hanno studiato tanti primi ministri, e lauree a Cambridge e a Oxford, oppure da finanzieri e attori miliardari. David Cameron abita vicino a Michael Alan Spencer, uno dei più importanti brokers d’Europa e tesoriere del partito conservatore, e a Gorge Osbome, futuro ministro delle finanze e figlio di un baronetto, padrone di una fiorente industria di tessuti.
Osborne ha 39 anni e Cameron, suo compagno d’università, ne ha 43. Cameron si dichiara «vicino al popolo», si fanno fotografare in bicicletta, ed esibiscono un certo interesse per l’ecologia. In queste ore Notting Hill deve conoscere una contenuta euforia. Un’euforia contenuta, come si conviene alla fortunata società (e in particolare all’aristocratica«banda») di Notting Hill.
Ma un’euforia educata anche perché, finora, mentre lo spoglio dei voti è ancora in corso, il vantaggio del leader conservatore non gli dà una vittoria eclatante. La voglia di cambiare degli inglesi si è infatti espressa in modo abbastanza chiaro, ma non in modo travolgente. E si profila dunque un hung parliament, vale a dire un parlamento in cui nessun partito ha la maggioranza assoluta. Se questo risultato si confermerà, il Regno Unito conoscerà per la prima volta (dal 1974) tutti i "vizi" continentali deplorati dalla società politica londinese: le manovre, le trattative, i compromessi tra partiti per costruire coalizioni in grado di governare. Nonostante la vittoria Cameron ha infatti un partito a maggioranza relativa e dovrà negoziare con altre piccole formazioni, sia pure da una posizione di forza. La conquista dei vizi d’oltre Manica non avvicina comunque il Regno Unito all’Europa. Il solo a dichiararsi europeista durante la campagna elettorale è stato Nick Clegg.
Il bipolarismo che garantiva soluzioni geometriche, nette, ha ricevuto un colmo meno serio del previsto. Ma è entrato in crisi. Anche questa è una svolta, che si profila mentre gli abitanti delle isole britanniche, ormai assonnati, seguono i risultati slittanti sui teleschermi. Prima di conoscere l’esito finale è azzardato immaginare come Cameron cercherà di formare il governo. Egli potrebbe anche tentarne uno di minoranza.
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