
Un'Italia forte e attrattiva, dove si investe con convinzione e non solo perché si può contare su enormi disponibilità finanziarie e sulla debolezza sistemica di un paese in disarmo. Anche a questo, in definitiva, servono le riforme sollecitate ieri dall'Ocse, che apprezza quella sul lavoro prospettata dal Governo.
Cambiare insomma passo nell'era della globalizzazione, senza la retorica salvifica che l'accompagna. Un Paese dove la British Gas non getta la spugna dopo undici anni di attesa per un'autorizzazione e dove non si rinuncia ai gioielli del "made in Italy" che hanno reso famosa, originale, e temibile in senso competitivo, l'Italia nel mondo.
Quattro mesi fa, quando il Governo Monti iniziava la sua sfida, eravamo al "Vendi-Italia". Nessuno, sui mercati finanziari, si fidava più dei nostri titoli pubblici. Il Paese era ad un passo dal default, non scordiamolo. Oggi la situazione è radicalmente mutata, ed in meglio. Ma come abbiamo avvertito da tempo l'emergenza non è terminata, né sui mercati né sul terreno della crescita, indispensabile al pari del pareggio di bilancio.
Nel suo viaggio asiatico Monti sta raccogliendo consensi e, soprattutto, investimenti. Di questi abbiamo assoluto bisogno, perché quelli diretti in Italia nel 2011 sono scesi del 53%. Invertire questa tendenza non è facile ed occorrerebbe tempo. Quello che però non abbiamo.
Fare affari in Italia, ce lo ricordano puntualmente tutte le classifiche internazionali, è operazione al limite del temerario. La burocrazia spegne ogni entusiasmo, è un gioco dell'oca senza tregua. La giustizia civile è una ruota della fortuna a tempi molto differiti. I contratti spesso sono un optional che danno molto lavoro, sì, ma agli avvocati. Il peso del Fisco è schiacciante e soffoca congiuntamente impresa e lavoro. I giovani con buone idee ma con pochi quattrini o relazioni che "contano" guardano altrove, delusi. La penuria di credito completa il quadro.
È la realtà di un Paese bloccato, anche mentalmente, da anni di mancata crescita e di spesa pubblica debordante. Ce ne è per tutti, nessuno escluso. Mentre gli investimenti diretti esteri latitano, tra il 2010 ed il 2011 oltre 200 imprese italiane sono passate in mano straniera. Americani e russi si contendono il vino e le vigne italiane. È il mercato, certo. Ma non è un buon segno. Sotto c'è anche rinuncia, stanchezza, sfiducia. Molte aziende, compresi grandi gruppi industriali come la Fiat, mettono a confronto, in termini di fattibilità e resa degli investimenti, l'Italia col resto del mondo.
L'analisi può terminare con la scelta di andare in Marocco, in Polonia, in Serbia. Sono i numeri a spingere in questa direzione: se questi fossero diversi, anche solo un po' diversi, molto probabilmente si sceglierebbe ancora l'Italia.
Ci sono, per fortuna, anche segnali opposti. Il fatto che un colosso giapponese come l'Hitachi sia pronto a rilevare il 50% dell'Ansaldo Breda (azienda storica che fa capo alla Finmeccanica) dimostra che il marchio Italia resta valido. Lo stesso vale per la multinazionale svedese Ikea: oggi a Villesse (Gorizia) si posa la prima pietra del primo parco commerciale italiano con il negozio Ikea. Un altro segno che si può scommettere su questo Paese.
Abbiamo bisogno di analisi e di confronti politici seri e non di polemiche che dividono preventivamente il Paese prima ancora che il testo di una riforma - come nel caso di quella sul lavoro - sia trasmesso al Parlamento. Non è tempo di rappresentare un'Italia tanto rissosa quanto inconcludente, con un piede nella riforma e con l'altro già fuori. Magari in attesa delle elezioni in Francia e poi delle amministrative in Italia: per capire l'aria politica che tira in vista del necessario confronto in Parlamento, ma intanto perdendo d'occhio i mercati e la crescita.
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