
Colpa del bel tempo, dell’ora legale che ha spiazzato il risveglio degli italiani o del vento francese, fatto sta che il fattore "A", cioè il fenomeno Astensione è la prima notizia consegnata da queste elezioni regionali a urne ancora aperte.
Ieri alle dodici il calo dei votanti era già di tre punti rispetto al 2005, con una media nelle tredici regioni del 9,7% contro il 12,6% del 2005. Alle dieci di sera i dati trasmessi dal Viminale segnalavano un calo ancora più marcato: nove punti, pari al 47% di votanti rispetto ai 56,3% alla stessa ora del 2005 e a quel punto la tensione nei due schieramenti cominciava a crescere. Non è un mistero infatti che una forte disaffezione al voto, secondo tutti i sondaggisti, penalizzerebbe soprattutto il centrodestra e potrebbe far la differenza nelle regioni più in bilico: Piemonte, Liguria, Lazio e Puglia.
Ma fino alle 15 di oggi la partita è ancora tutta da giocare, anche se un sondaggista come Nicola Piepoli ieri pomeriggio arrivava a pronosticare che questi primi dati potrebbero tradursi alla fine in una discesa di 10 punti dell’affluenza alle urne. E un calo a due cifre, certo significativo, è stato segnato già ieri tra i votanti del Lazio. Bisognerà vedere se a urne chiuse la percentuale di elettori sarà di molto inferiore al 71,5 del 2005 per poter dire se la febbre francese avrà contagiato anche lo stivale e se il distacco dei cittadini dalla politica avrà raggiunto livelli non fisiologici ma allarmanti.
Dunque il fattore "A" rischia di essere determinante in una tornata elettorale che chiama 41 milioni di italiani alle urne in tredici regioni, quattro province (Imperia, Viterbo, L’Aquila e Caserta) e 463 comuni. Un voto che rappresenta l’ultimo test elettorale prima delle elezioni politiche del 2013 e che per questo può ripercuotersi sulla tenuta del governo, sugli equilibri tra i due schieramenti e sulle dinamiche interne ai principali partiti. Se il centrodestra è favorito in Lombardia, Veneto, Campania e Calabria, è arduo sbilanciarsi sull’esito delle regioni chiave per la vittoria, cioè il Piemonte e il Lazio, dove è testa a testa tra i candidati. In Piemonte una vittoria di Cota, accompagnata da un boom di voti della Lega in Veneto e Lombardia, potrebbe influenzare gli equilibri del governo ed inasprire le tensioni con la compagine finiana nel Pdl. Ma nello stesso tempo segnerebbe un rafforzamento della leadership del Cavaliere sceso in campo in prima persona nelle ultime fasi della campagna elettorale. A rafforzare la sua premiership contribuirebbe una vittoria nel Lazio della Polverini, che anche se riconosciuta come candidata vicina a Fini, metterebbe il sigillo sull’appeal indiscusso del centrodestra malgrado il caos liste e l’assenza di una lista del Pdl nella provincia di Roma a fare da acchiappavoti.
E’ dunque evidente che anche se il centrosinistra vincesse la sfida numerica delle regioni con un sette a sei (conquistando Liguria e Puglia insieme a Emilia, Toscana, Umbria, Marche e Basilicata), Bersani avrebbe qualche difficoltà a rivendicare una vittoria politica piena. Che sarebbe invece assicurata dalla conquista anche di Piemonte e Lazio: nel primo caso il leader del Pd potrebbe rivendicare il successo dell’alleanza con Casini come prodromo di un nuovo cantiere in vista delle politiche. Nel secondo caso, otterrebbe una rivincita sulla pioggia di critiche per la scelta di un candidato laico come la Bonino nella regione dove risiede il Papa. Una partita a sè la gioca Casini che se vedesse confermato il 6,5% delle europee con i voti dell’Udc a far la differenza in Piemonte, Liguria e Marche col Pd e in Lazio e Campania col Pdl potrebbe a buon gioco uscire da queste elezioni con la corona di ago della bilancia.
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