
È possibile che la presidenza americana stia attraversando una sorta di crisi di identità?
Un abito sbagliato, una cena fuori luogo, un cambiamento di umori, un viaggio deciso all’ultimo minuto, percorsi decisionali tortuosi e annunci finali esitanti. Le ultime settimane hanno mostrato un presidente Obama imprevedibile. Come se procedesse un po’ a tentoni. O, meglio, come se avesse perso in parte quell’inequivocabile senso di direzione che è sempre apparso come una sua seconda pelle.
L’idea di una crisi di identità - concetto molto impolitico, ma narrativamente efficace - nasce da un episodio minore: il tono scelto per la prima cena di Stato, dalla elezione, offerta pochi giorni fa dalla coppia Obama. Questi pranzi sono molto formali e servono a celebrare il Potere attraverso uno smodato uso dello Sfarzo. Gli Obama hanno interpretato l’appuntamento, già di per sé enfatico, con una enfasi che secondo molti è ormai il loro stile. Gli ospiti, di solito 130, sono lievitati a 400 e per accoglierli si è dovuto costruire un apposito padiglione di vetro e metallo nel giardino della Casa Bianca. Oro il colore della serata. Oro sui bicchieri, i piatti, le tovaglie, le tende, e sul corpo statuario di Michelle, in abito lungo splendente sulla pelle color ebano. Da mozzafiato. E da mozzadenti. L’enorme sfarzo è stato accolto da un cortese silenzio. L’assenza del solito coro di ammirazione ha riempito le orecchie di tutti. A quattro giorni da un discorso con cui si annuncia il raddoppio delle truppe in Afghanistan, in piena emergenza disoccupazione, nel giorno di un Thanksgiving segnato dal calo di consumi, il colore dell'oro è apparso stridente, una ovvia indelicatezza.
Interpretato come frutto di disorientamento più che di arroganza, lo sfortunato pranzo ha fatto tuttavia emergere l’impazienza che si sta accumulando nei confronti del Presidente, per il trascinarsi di troppi rimandi, per il suo persistente evitare di tagliare i nodi, preferendo un percorso che comincia ad apparire bizantino - cioè l’esatto contrario di tutto ciò che ha promesso. Il caso clamoroso di queste esitazioni, come ormai è chiaro a tutti, è quello dell’invio dei soldati in Afghanistan, cui si è arrivati con incertezza, divisioni, e con una soluzione che, come razionalizza Leslie H. Gelb, presidente emerito del Council on Foreign Relations, «è ragionevole ed è il massimo che si poteva attendere visto gli attuali conflitti interni».
Uguale, se non maggiore incertezza viene suggerita dal percorso dell’impegno degli Usa nel vertice convocato fra pochi giorni a Copenhagen sul cambiamento climatico. Come si ricorderà, Obama in campagna elettorale si è impegnato sulle questioni ambientali al punto da aver dichiarato Kyoto un protocollo superato e inefficace, promettendo un accordo mondiale nuovo di zecca. Ancora un mese fa, questa era la linea, e un universo di fiduciosi governi e ambientalisti si preparava a marciare sul Paese della Sirenetta. Poi però sono arrivati il viaggio in Asia di Obama, le resistenze di Cina e India a qualunque «imbragatura» del loro sviluppo, e il Presidente Usa ha soavemente preso atto, derubricando Copenhagen a «una prima tappa» di un nuovo accordo. Ma due giorni fa, nuovo cambio di scena: la Casa Bianca ha annunciato che il presidente Obama andrà al vertice in Danimarca, sulla strada della Svezia dove ritirerà il Nobel per la Pace.
L’inchiostro delle domande su questo nuovo passo non si era asciugato ancora che è arrivato l’annuncio della Cina, la nazione che produce più inquinamento al mondo, che si impegna a tagliare le sue emissioni del 45 per cento (invece che del 40) entro il 2020. Gli esperti dicono che non è granché, come promessa, ma è segno che forse di Copenhagen qualcosa si può salvare. Ma una domanda maliziosa si pone: quando ha saputo Obama della decisione della Cina? Il curioso rincorrersi in poche ore degli annunci da Washington e da Pechino sembrano indicare una troppo perfetta sintonia per non apparire anche una mossa di facciata per salvare la reputazione dei due Paesi.
Il dubbio alla base di tutte queste osservazioni è che nel suo tentativo di tenere tutto insieme, Obama sfumi piuttosto che chiarire il posizionamento che vuole dare a questo Paese.
Un altro elemento di questa confusione è un certo consumarsi della famosa oratoria obamiana, che ogni tanto è ripetitiva o inefficace. E’ il caso del tradizionale discorso di Thanksgiving, pronunciato proprio due giorni fa. Obama ieri è stato breve, secondo tradizione, ma non convincente. Sul suo invito alla concordia sociale (fra coloni e indiani), un tipico «volemose bene» americano, si sono avventati con grande energia osservatori quali E. J. Dione che sul «Washington Post» ha richiamato la forza della prosa di un discorso di Franklin D. Roosevelt pronunciato per il Thanksgiving del 1934, in tempo di uguale crisi: «Il nostro senso di giustizia si è fatto più profondo. Abbiamo oggi tutti noi una comune visione per come far avanzare il benessere e la felicità delle persone, in uno spirito di aiuto reciproco che ci aiuterà a rendere tutto ciò una realtà...».
Vero. A fronte, Obama sembra sussurrare invece che gridare. Ma - e qui finiamo con una domanda, come abbiamo iniziato - se è questione di identità, non occorre forse anche ricordare che Roosevelt era un grande aristocratico, e che Obama è ancora (e solo) il primo Presidente nero mai eletto negli Stati Uniti?
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