
26/11/10
L'Unità
Due settimane fa nel loro programma su Rai 3 Fazio e Saviano hanno affrontato il tema della fine vita ospitando la testimonianza di Mina Welby e ripercorrendo la parabola di Eluana Englaro. Ne sono seguite proteste e richieste di una par condicio (che termine assurdo nel contesto dato) a favore di posizioni diverse e distinte da quelle espresse nella puntata di Vieni via con me. Della questione si è parlato anche nella commissione di vigilanza sulla Rai ma soprattutto nel CdA che ieri, su sollecito del consigliere di nomina Udc, ha fatto votare un odg con cui si invitano i curatori del programma a recepire la richiesta avanzata dal movimento cosiddetto pro-life. I due consiglieri della minoranza (in tutto sono tre) non hanno preso parte alla votazione. Considero questo atto un grave errore di metodo e di principio. Oltre che un precedente inquietante (ma per trattare quest’ultimo punto bisogna risalire alla querelle Maroni-Saviano e al suo esito).
L’errore è non distinguere tra tipologie di programmi diversi. Nel senso che una cosa sono le trasmissioni giornalistiche e d’informazione (in cui - da Vespa a Floris a Paragone... - è giusto garantire par condicio tra forze e schieramenti diversi). Altra cosa sono i programmi che appartengono a generi diversi (per esempio l’approfondimento culturale e di una libera espressione di punti di vista che si possono condividere o meno, ma che poco hanno a che fare con la proiezione di una tribuna elettorale nella programmazione della Rai).
Ma vediamo l’errore di principio, che in assoluto è il più serio. Non si può e non si deve stravolgere quello che storicamente è stato un principio del pluralismo culturale dentro il servizio pubblico e che si è fondato (seppure con alterne fortune) sulla convinzione che la ricchezza dei punti di vista e delle posizioni (direi dei grandi filoni culturali del paese) non dovesse né potesse passare da un equilibrio rigoroso, bilanciato e regolato dal minutaggio, dentro ogni singolo programma ma dovesse e potesse trovare riscontro nell’insieme della programmazione.
Se viene meno questo principio muore l’idea stessa dell’autonomia degli autori e del pluralismo. E si colpisce una concezione aperta e laica del servizio pubblico. Quel luogo (di libertà espressiva culturale e creativa) destinato a raccontare il paese per come esso è. E per come si evolve. Dietro la violazione di questo principio c’è un meccanismo automatico (ma in fondo anche autoritario) che trasferisce i riflessi della politica dentro le pieghe del "racconto" e dentro linguaggi e codici della comunicazione (e della cultura) che la politica per prima dovrebbe avere l’interesse a tutelare.
Il punto non è se Saviano e Fazio hanno torto o ragione. Il problema è se Saviano e Fazio hanno il diritto di fare il loro mestiere (con risultati di ascolto imprevisti) dentro il servizio pubblico. Sapendo che il diritto di Saviano e Fazio è la condizione perché altri, come loro e magari più capaci di loro, possano esercitare lo stesso diritto. Ed è su questo principio che si è compiuto uno strappo incredibilmente grave.
Infine, sul precedente inquietante. La questione riguarda il "diritto di replica" che al ministro Maroni è stato garantito. Tutto bene? Fino a un certo punto. Perché, mi chiedo, questo diritto (sacrosanto) vale per il ministro dell’Interno e non vale, per dire, per i terremotati abruzzesi ignorati dalle testate giornalistiche dell’azienda pubblica? Se il sospetto è che quel diritto (come tale universale) si attiva solo in relazione alla gerarchia istituzionale del richiedente sorge il dubbio che non di diritto si tratti ma di privilegio.
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