
Penso che non vi sia politico italiano che abbia contribuito a far ridurre la presa dello statalismo, dello stato etico, dei partiti, forse della stessa partitocrazia, più di Aldo Moro: fu, la sua, una scoperta tardiva, un lampo che squarciò le tenebre del carcere in cui, per oltre cinquanta giorni, venne tenuto dalle Brigate rosse prima di essere barbaramente trucidato.
In quei giorni di esistenziale solitudine, Moro scrisse una serie di lettere dirette alle più varie personalità - amici di partito ed esponenti politici (una era indirizzata al papa dell'epoca, Paolo VI) - per persuaderle della necessità, anzi della doverosità, di scelte che consentissero a lui di uscire vivo dalla prigionia. Per salvare la sua vita, il suo stesso cammino di uomo politico, era necessario - scrisse testualmente - "fare uno strappo alla regola della legalità formale". Parole umanamente strazianti ma anche sconcertanti, se pronunciate da un capo di governo, da un uomo di stato che aveva l'ambizione di lavorare sui temi alti della politica.
Moro era parte integrante di quella Dc postgasperiana che aveva consapevolmente introiettato la cultura del corporativismo, fondato su principi teorici con lontani radicamenti antidemocratici - anche nel campo laico, si pensi al comunitarismo di Ferdinand Tònnies - ma soprattutto ancorato alle grandi strutture produttive pubbliche create dal fascismo. Mi pare che il primo assertore di questa Dc sia stato Amintore Fanfani, studioso e docente di economia formatosi nel clima del corporativismo mussoliniano. E anche l'alleanza, il sistema delle "convergenze parallele" con il Pci di Berlinguer che Moro auspicava e che fortemente tentò di realizzare, non prometteva, su questi argomenti, nulla di buono. Ma alla fine, quando si trova faccia a faccia con la morte, in Moro riaffiora il tema della persona, della persona cristiana che si pone come fondamento ultimo della società civile, come obiettore di coscienza (nel senso più forte) di fronte alle pretese dello stato. E, in nome della persona, Moro tenta (invano, ahimè) di costringere i suoi interlocutori a patteggiare per la sua liberazione.
Dialogo, non genuflessioni
Il disperato appello aveva indubbiamente radici nell'umanissimo tentativo di salvare la vita, non era un riflesso di quella costante di pensiero in qualche modo liberale che caratterizzò un certo cattolicesimo italiano. Anche De Gasperi aveva una visione dello stato non invasiva. De Gasperi era un popolare sturziano: quel cattolicesimo aveva superato da poco il "non expedit" evitando le tracimazioni di Romolo Murri, doveva prudentemente evitare collisioni con le più intransigenti teorie risorgimentali della separazione tra chiesa e stato, e non poteva immaginare la svolta totalitaria del fascismo. Moro non aveva un radicamento popolare, né confidenza con le idealità liberali: poté però estrarre dal suo credo di cattolico le risorse necessarie per liberarsi d'un colpo di troppe remore culturali e politiche e consegnarci un messaggio di grande ricchezza umana e di libertà civile.
Chi, nel mondo cattolico, raccoglierà quel retaggio? Quello che gran parte del mondo cattolico chiede non è il dialogo tra il cattolico e il laico, ma il gatteggiamento diplomatico tra due sovranità statuali. E non a caso uno dei suoi bersagli più insistiti è il cattolicesimo liberale e i suoi interpreti. Insomma, niente a che vedere con il richiamo all'umanesimo cristiano che mi pare si debba leggere nell'Aldo Moro delle lettere.
Nel momento in cui il mondo del laicato cattolico sta cercando di riorganizzarsi per affrontare il dopo Berlusconi queste considerazioni hanno forse una qualche attualità. Tra il centrismo casiniano e l'aggregazione di Todi ci sono diversità di ispirazione e di progetto: nel governo Monti sono presenti cattolici autorevoli, ai quali si attribuiscono intenzioni di lungo respiro. La stessa chiesa o, se volete, il Vaticano, tiene a mostrarsi flessibile e disponibile nei suoi rapporti con lo stato, il cardinale Bagnasco, se non altro perché preoccupato delle possibili sanzioni dell'Unione europea, si è offerto per rivedere la normativa fiscale (lei) sui beni ecclesiastici.
Dall'altra parte, accantonata l'ingombrante politica della genuflessione, con Monti lo stato italiano ha timidamente ma significativamente modificato se non altro i suoi comportamenti di fronte all'autorità religiosa. E speriamo non trovino seguito, o vengano bloccate, le affermazioni di certa parte del mondo clericale per la quale, "essendo l'ente locale, nella dottrina sociale-cristiana, chiaramente autonomo e indipendente dallo stato e dalla organizzazione statale e quindi oggetto di un'attività sociale prepolitica distinta e autonoma dall'attività politica", eccetera eccetera. L'autonomia della coscienza di fronte allo stato di cui parla Moro è altra cosa. Nella raccoltina dei suoi scritti pubblicata a cura di un grande giornale, "La democrazia incompiuta", non mi pare di aver letto il termine "chiesa". Almeno in un contesto politicamente impegnativo.
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