
21/09/10
Italia Oggi
La commemorazione del Venti Settembre ha segnato un evento che va oltre gli scontati riti, perché esprime un valore simbolico che proprio i più accaniti sostenitori della breccia di Porta Pia non hanno compreso. La presenza del cardinal Tarcisio Bertone, segretario di Stato, è stata oggetto di critiche, doglianze, inorridite contestazioni. Taluni anticlericali epigoni dell'Asino di Podrecca rimarcano la presa di Roma come emblema di libertà contro la Chiesa cattolica, dimenticando che essa avvenne in funzione di unità nazionale.
Stupisce che non si sia capito, da tali rivendicatori di laicità e puristica intangibilità dello Stato (dai radicali a qualche commentatore de la Repubblica), una verità semplice: stavolta non è Enrico IV che va a Canossa, ma il papa (non più re) che si reca a Canossa. È la parte sconfitta nel 1870 che riconosce le ragioni dei vincitori di allora, non l'opposto. C'era voluto un secolo, prima che Paolo VI ammettesse la provvidenzialità, per la Chiesa, della perdita del potere temporale. Poi, con un processo successivo, la Chiesa è giunta a mandare il segretario di Stato a Porta Pia. Che si pretende di più, da parte di certo mondo laico?
Quel Venti Settembre che, ancora dopo la Conciliazione, Pio XI chiedeva di fare sparire dalla toponomastica (ricevendone scontate risposte negative da Mussolini), riceve adesso l'omaggio del primo collaboratore del papa. Di fronte a una tale Canossa religiosa, i laici dovrebbero fregarsi le mani, non atteggiarsi a vergini violate. Invece predicano da mangiapreti fuori del tempo, rimanendo fermi all'Ottocento, mentre la Chiesa ha compiuto passi in avanti che la portano, senza dichiararlo, a smentire quel che aveva per decenni sostenuto per alimentare la questione romana. Cavour sarebbe lieto di vedere la Chiesa celebrare quella libertà che ai suoi tempi il clero negava. I suoi pretesi epigoni, invece, si mangiano le mani.
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