
Già per due volte l’accordo tecnico sulla riforma elettorale sembrava vicino. E per due volte è saltato. È con la massima prudenza, quindi, che nei partiti si ragiona attorno all’ipotesi di compromesso che sembra prendere piede, che alla fine vedrebbe – tra le altre cose – l’attribuzione di un premio di governabilità attorno al 10 per cento alla lista più votata. Una soluzione che favorirebbe una sorta di vocazione maggioritaria “coatta”, con l’assorbimento all’interno delle liste maggiori dei partiti che rischiano di non superare la soglia di sbarramento. La scorsa settimana, Europa parlava in proposito di «aria di rientri nel Pd», a partire da quelle forze che parteciperanno alle primarie di coalizione.
Al Nazareno nessuno ha intenzione di riproporre un listone in stile Unione, valutando piuttosto di caso in caso le possibili alleanze ed eventuali candidature “ospiti”, da affiancare a quelle più propriamente di partito e a quel coinvolgimento di forze civiche, che rappresenta uno dei punti di forza della linea bersaniana. Per il momento, nessuna decisione può essere considerata definitiva, se non quelle dell’asse con Sel, del divorzio con Di Pietro e, in prospettiva, dell’accordo con i moderati raccolti attorno all’Udc. Una prima indicazione arriva però dal giro di incontri che il segretario del Pd ha promosso per confrontarsi sulla carta d’intenti: dopo Vendola, oggi sarà la volta del leader socialista Riccardo Nencini. Con il Psi il rapporto è molto buono da tempo e un’intesa sembra essere a portata di mano. Così come sembrano esserci poche alternative all’ingresso di candidati della rosa nelle liste dem, per evitare la tagliola dello sbarramento.
Una prospettiva ritenuta d’altronde inevitabile anche in casa socialista. In una condizione simile si trova l’Api, che può contare in aggiunta sulla candidatura alle primarie di Bruno Tabacci. Sul suo nome c’è un diffuso ottimismo tra i suoi sostenitori, che sperano in un buon risultato per non doversi limitare a contrattare qualche posto in lista, ma bensì portare a pieno titolo il loro contributo alla coalizione per «controbilanciare il peso della sinistra», pronti per questo anche a sciogliere il loro partito. Per una decisione definitiva, l’appuntamento è rinviato a metà settembre, quando si terrà la kermesse dell’Api a Maratea.
Ammesso che allora il quadro politico (a partire dalla riforma elettorale) sia già più chiaro. C’è, poi, chi non ha ancora ricevuto l’invito del Nazareno: i Verdi e i Radicali. Questi ultimi, soprattutto, premono su Bersani per riaprire un canale di dialogo, che al momento appare interrotto. «Noi, con le nostre tradizionali lotte su giustizia, libertà civili, questione democratica, abbiamo una credibilità di fronte all’elettorato – rivendica il segretario Mario Staderini – perché allora il Pd nel ricercare il confronto con i moderati esclude quello con i Radicali?».
A largo Argentina sono convinti che il problema non sia un veto nei loro confronti da parte di Casini. In effetti, è tra i dem stessi – soprattutto di sponda cattolico-democratica – che cresce il pressing nei confronti di Bersani per non ripetere l’esperienza del 2008. Se così sarà, Staderini non esclude che i Radicali potranno decidere di tirarsi fuori dalla sfida di primavera: «Già in passato abbiamo avuto molta fantasia per farci sentire comunque. Ma il tema è un altro: noi crediamo di poter dare il nostro contributo al prossimo governo. Il Pd vorrà dialogare con noi?».
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