
Pensare che il terremoto politico sia innanzitutto l'esito di una campagna elettorale sbagliata, è davvero puerile. E anche pericoloso, dal momento che si rischia di attribuire le cause di un grande mutamento ad errori tattici, eccesso di sicumera o addirittura - è la considerazione più diffusa - a una sbagliata strategia di comunicazione. Insomma, un deficit di propaganda. E, invece, temo che la verità sia un'altra. Qui, subito, anticipo una conclusione che proverò ad argomentare, ma che richiede certamente altri supplementi di indagine.
Con le elezioni del 2013 si è manifestato l'esaurimento pressoché definitivo di un'intera storia politica. Di più, di un intero catalogo di categorie politiche. Sommariamente: si è inaridito il repertorio della politica come l'abbiamo conosciuta nelle democrazie europee a partire dal 1945. E se la crisi attuale riguarda innanzitutto il Pd è perché questo partito rappresenta l'ultimo retaggio, il più consistente e vitale nonostante tutto, di quella stessa politica e di quelle culture politiche che ha ispirato.
È importante, soprattutto, considerare che, a esaurirsi, sia tutta intera, ma proprio tutta intera, quella storia: da Palmiro Togliatti a Matteo Renzi, da Alcide de Gasperi a Nichi Vendola, dalla Dc al Psi, dal Partito repubblicano a Rifondazione comunista, passando per Lotta continua e i Verdi (la sola eccezione è forse quella del Partito radicale, che costituisce un modello autonomo). In altre parole la politica di Giuseppe Dossetti e Giorgio Napolitano, ma anche di quelle componenti in apparenza così irreparabilmente altre, che produssero l'estremismo di sinistra, e, più di recente, il giustizialismo dolente e testimoniale della Rete e quello rancoroso e vendicativo dell'Italia dei Valori. E persino, lo dico senza alcun intento provocatorio, la patologia della violenza politica di sinistra.
Ciò che differenzia queste organizzazioni fino a farle apparire assolutamente incomparabili, è del tutto evidente. Meno evidente, forse, ciò che le rende affini. Ovvero almeno due ordini di fattori: a) un'idea della partecipazione e della rappresentanza politica; b) un'idea della coesione e della giustizia sociale. La Dc così come Lotta continua (va da sé: ciascuno con il suo linguaggio e con i suoi strumenti) investivano su una sequenza che andava dall'economico al sociale all'istituzionale, dalla micro comunità al gruppo e alla classe, dalla partecipazione diretta alla delega, dalla parrocchia o dal quartiere al mondo. E tutte quelle formazioni, ciascuna con la sua strategia,
miravano a incrementare l'unità e a ridurre le ingiustizie.
L'unità faceva riferimento ad aggregati diversi (il popolo o il proletariato, gli sfruttati, i produttori, i cittadini...) e la giustizia si proponeva come ribaltamento dei rapporti di potere oppure come solidarismo universalistico: ma entrambe ( l'unità e la giustizia) costituivano il senso stesso, ancor prima che il fine, dell'azione politica. E si portavano appresso un repertorio assai ampio di strumenti e luoghi: il partito innanzitutto, ma anche il sindacato «amico», e poi le sezioni e i circoli, gli organismi locali e quelli nazionali, gli altoparlanti e il giornale di riferimento, i patronati e le associazioni di categoria, la militanza politica e quella aziendale, i funzionari e i leader, i congressi e gli inni, la formazione e la selezione dei dirigenti, i manifesti e le tessere e le feste e i comizi e le bandiere e i megafoni...
Tutto ciò sembra ormai finito (o quasi). Lo è certamente per il 65% dei votanti alle ultime elezioni. Resta un 35%, destinato - per incalzanti ragioni demografiche - a ridursi a un 25%, che sembra riconoscersi tuttora nelle categorie politiche classiche. Ma il restante elettorato, pressappoco 3 cittadini su 4, è altrove e pensa e opera e vota altrimenti. Ciò che sembra finita è, dunque, una concezione della politica come successione di azioni collettive, basate sullo scambio e sul rapporto faccia a faccia, vissute all'interno di aggregazioni via via più ampie e affidate a relazioni orizzontali, che successivamente si sviluppano verso l'alto. Una concezione dove l'esperienza individuale viene immediatamente ricondotta a una dimensione sociale, che non intende annullare la prima, ma potenziarne l'energia. Una concezione, ancora, dove 1' «uno vale uno» è il punto di partenza, da cui muovere per superare l'isolamento e non la tappa d'arrivo di un'autonomia che rischia immancabilmente la solitudine. Una simile idea della politica, dicevo, affonda oggi in una crisi irreparabile, logorata dall'azione congiunta di berlusconismo e grillismo. Entrambi, non a caso, partiti a struttura piramidale-autoritaria, dove massima è la personalizzazione mitologica del Capo, e tra il vertice e l'elettorato c'è solo il vuoto: attenuato nel caso del Pdl, dalla rete del notabilato e degli eletti nelle istituzioni; e ,nel caso del partito Cinque Stelle, rattoppato dalla rete del web, tanto fredda quanto de-responsabilizzante.
Dopodiché, resta un problema grande come una casa: se è vero che il 75% dell'elettorato sta fuori da quell'idea di politica prima descritta, è altrettanto vero che in altri Paesi europei le culture politiche tradizionali (e le categorie di destra e di sinistra) sono tuttora vive e attive; e che, in Italia, un 25% dei votanti a quella stessa idea resta fedele. E non per istinto di conservazione. Bensì perché quella è la politica nella quale si identifica e alla quale affida le proprie attese di giustizia sociale. Guai a dimenticarlo.
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