
Dopo un mese e passa di promesse di dialogo tra governo e opposizione, la rottura maturata ieri sulla giustizia non deve meravigliare. Berlusconi non solo non ha rinviato i provvedimenti depositati in Parlamento per garantirsi il salvacondotto penale, ma allo stesso scopo ha cominciato a studiare un decreto legge - da portare oggi al Consiglio dei ministri - basato su una sentenza della Corte Costituzionale che prevede, a certe condizioni, la sospensione di tre mesi dei processi.
Era scontato che Bersani, su questo terreno, non potesse concedergli nulla.
L'accelerata di ieri del Pd è dipesa anche dall'ipotesi del decreto. Il premier vi si è accostato quando ha saputo che nei prossimi due mesi dovrebbe comparire ben ventitré volte al Palazzo di giustizia di Milano. Un calendario considerato incompatibile con gli impegni di governo, e determinato, forse, dai numerosi rinvii chiesti finora dal Cavaliere. Ma il Pd si stava preparando alla svolta anche prima, lamentando che, come altre volte, il governo avesse preparato fuori dalle Camere il testo del suo maxiemendamento. La versione definitiva del «processo breve», il contestato taglio dei tempi dei procedimenti penali, è stata scritta materialmente a Palazzo Grazioli.
Nelle ultime legislature, questo di considerare il lavoro delle commissioni parlamentari e dei singoli deputati e senatori come un optional, da correggere un minuto prima del voto con un testo governativo blindato, è un malvezzo al quale i governi, non soltanto l'attuale di centrodestra, si sono purtroppo abituati. Da parte di Palazzo Chigi, esservi ricorso anche su una materia controversa come questa, dà l'idea dell'importanza che il premier attribuisce al proprio salvataggio.
Tra governo e opposizione, e tra governo e magistratura, si andrà quindi a uno scontro di fortissima intensità, destinato ad occupare quasi interamente la campagna elettorale per le elezioni regionali. Dopo le quali invece, dovrebbe tornare in discussione il destino delle grandi riforme di cui fino a tre giorni fa si parlava con ottimismo. Ieri i toni del leader del Pd non lasciavano sperare che dopo una contrapposizione come quella che si prepara il dialogo possa riprendere tanto facilmente. Eppure, la sensazione, che riguarda, sia Berlusconi, sia Bersani, è che entrambi alla fine si tengano una carta di riserva.
Il Cavaliere ha voluto dare una spinta ai due testi giacenti in Parlamento - «processo breve» e «legittimo impedimento» -, e non ha escluso il ricorso al decreto, perché, con tre colpi in canna, si sente più sicuro di centrare il suo obiettivo. Se anche uno solo di questi provvedimenti dovesse andare in porto, però, non è detto che insisterebbe sugli altri due. Anzi, potrebbe fermarsi, e una volta superate le elezioni regionali, verificare se da parte del centrosinistra esista ancora la disponibilità a un diverso tipo di intesa. Ad esempio, com'è emerso negli ultimi giorni, sul ripristino per via costituzionale dell'immunità parlamentare.
Quanto a Bersani, la faccia dura all'annuncio della svolta era dovuta. Ma il «mettersi di traverso» del Pd non si sa ancora se preluda a un ostruzionismo parlamentare, o a una dura opposizione, ma senza ostruzionismo. Sicura, al momento, è soprattutto l'irritazione del centrosinistra per il metodo seguito dal centrodestra e per il confronto promesso e negato. E in una battaglia parlamentare senza esclusione di colpi, verrà quel che verrà.
Non è facile, certo, parlare di tregua, nel giorno stesso in cui viene dichiarata guerra. Ma al di là delle leggi del Cavaliere, la giustizia e i rapporti tra il potere politico e quello giudiziario interessano molto anche il centrosinistra. Sono troppi anni che le riforme mancate tengono il Paese inchiodato a una transizione infinita. Che l'opposizione lasci Berlusconi e la maggioranza ad ingoiare da soli il loro rospo, è comprensibile. Mentre è difficile credere che anche stavolta, la politica, nel suo complesso, non si giochi la posta più alta.
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