
Pare che la casa discografica fosse tutt'altro che entusiasta dell'iniziativa di Johnny Cash di suonare in una galera e che avesse perfino tentato di contrastarla. Ma alla fine anche i più scettici avevano dovuto ricredersi davanti alle vendite straordinarie che fece registrare At Folsom Prison: «Il primo enorme successo discografico tratto da un concerto live (e in una prigione!) », come si legge nel libro La musica è leggera, racconto su mezzo secolo di canzoni da poco dato alle stampe dal sociologo Luigi Manconi con Valentina Brinis (Il Saggiatore, pp. 505, euro 16).
Era il 1968 e l'anno successivo Cash sarebbe tornato a esibirsi davanti a una platea di detenuti, ancora in California, nel penitenziario di San Quintino. Lo stretto connubio tra il mondo della musica e quello della pena, tuttavia, affonda le radici ben più lontano nel tempo. Nel blues, che oltreoceano si levava dai campi di cotone, risuonava nei ghetti e negli altri luoghi abitati dagli ultimi del mondo. E quindi anche nelle prigioni. In quella di Parchman, ad esempio, nel Mississippi, «dove sono stati reclusi i più noti bluesmen del mondo che con le loro note avrebbero influenzato il rock», spiega Salvatore Ferraro leader dei Presi per caso, la band nata a Roma tra le mura di Rebibbia. Il carcere è stato una fucina sia di musica che di testi ispirati dalla detenzione, dal tempo sospeso, dilatato e vuoto della pena. E dalle storie di quell'infinito campionario umano che è costretto in cattività dietro le sbarre di una cella. «Il legame è forte e si rintraccia anche nel filone della musica popolare osserva Ferraro -, c'è sempre un rapporto tra la musica e i cosiddetti "fuorilegge", sono tantissimi i musicisti finiti dentro e le tematiche di un certo tipo di musica richiamano spesso la condizione carceraria, o comunque un'esistenza che fatica a integrarsi con le regole sociali». Lo stesso Johnny Cash si era fatto un po' di galera, così come «il grande bluesman di colore Leadbelly, condannato per un omicidio che lui diceva di aver commesso per legittima difesa, Aretha Franklin per una banale rissa, Gilberto Gil per motivi politici, Chet Baker, per il suo abuso di eroina e, per l'impegno pacifista, pure Bob Dylan», elenca sul suo blog Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone che con Susanna Marietti racconta l'incrocio tra carcere e musica su Radio Popolare in un programma che hanno intitolato "Jailhouse Rock", come la leggendaria canzone portata al successo da Elvis Presley. Nomi tra i più illustri anche della musica di casa nostra sono transitati per la prigione, come Vasco Rossi, per poche settimane nel 1984: esperienza che avvicinerà il Blasco al Partito Radicale e a Marco Pannella che andò a fargli visita. O come Franco Califano, il quale anni più tardi tornerà a Regina Coeli e a Rebibbia a cantare, applauditissimo, per i detenuti.
Gli arresti e le detenzioni celebri hanno sempre destato curiosità. E anche un sottile, malcelato piacere davanti alle facce stravolte e gonfie, alle grosse borse sotto occhi finalmente sottratti al trucco, che sgomenti guardano da brutte foto segnaletiche: le stesse che, raccolte in gallerie sulle homepage dei siti di informazione, sono ormai diventate un genere per voyeuristi e non solo, e che immortalano il momento in cui la nemesi si abbatte sui deliri di onnipotenza di star belle e viziate. Come dimenticare, ad esempio, lo sguardo disorientato di un Hugh Grant all'apice del successo, finito in manette dopo esser stato sorpreso a Sunset Boulevard in compagnia della prostituta Divine Brown? Tuttavia il legame fin qui descritto tra carcere e musica va ben oltre. E se è vero che la letteratura e il cinema sono le forme artistiche più ricettive nei riguardi del mondo della pena, dei drammi e delle suggestioni che albergano al di là delle sbarre, la musica è quella che più rapidamente riesce a cogliere ciò che trapela dalle mura di un carcere. In Italia accade soprattutto a partire dagli anni Settanta «quando l'opacità del sistema penitenziario comincia un po' a diradarsi e alcune problematiche a emergere», spiga ancora Salvatore Ferraro, ma non solo: La ballata del Miché («un brano fondamentale», secondo Manconi) fu scritta nel 1961 da un Fabrizio De André appena ventunenne. Seguì Nella mia ora di libertà, nel 1973, e Don Raffaè, nel 1990. Ma Faber non è stato il solo, nel panorama italiano, a cantare le pene del carcere. Francesco De Gregori l'ha fatto ne L'impiccato, Babbo in prigione (1978) e in Canta canta (1983). Luigi Manconi ricorda anche La casa in riva al mare, scritta da Lucio Dalla nel 1971, e le più recenti Che giorno è, di Raf (1998), la bellissima Aria, con cui nel 1999 Daniele Silvestri conquistò il premio della critica al Festival di Sanremo (classificandosi però solo nono nella gara canora), e Morire tutti i giorni dei 99 Posse (2011) il cui testo porta la firma dell'ergastolano scrittore Carmelo Musumeci. Alessandro Mannarino, nuovo fenomeno del folk romano, ha recitato nel suo tour i pensieri del Carcerato qualunque («la domanda segreta è/a che serve chiudere la gente qua dentro?»); mentre solo pochi giorni fa Marina Rei ha cantato l'emergenza carceraria sul palco del Primo Maggio, davanti alla giovane platea che affollava piazza San Giovanni, con un testo Qui è dentro, che prende spunto dalle lettere scritte dai detenuti a Radio Carcere. Accessorio prezioso, la radio, e formidabile canale di scambio tra "il dentro" e "il fuori". Proprio come le parole e le note che gracchiano nelle celle, riempiendo le ore vuote di un tempo che pare infinito. «La musica è la forma più felice di evasione», spiega agli Altri Luigi Manconi, «un termine gioiosamente doppio, ambiguo, con il quale si intende sia la capacità di uscire dalla propria prigione mentale, che quella di immaginare di trovarsi altrove rispetto al luogo dove si è reclusi». La musica abbraccia tutti i sensi possibili dell'evasione, «rompe le sbarre, ti consente di uscire da una cella e riesce a liberarti dalla reclusione psicologica della mente». Non è un caso che, come racconta Manconi nel libro La musica è leggera, un documento firmato da un gruppo di ex militanti della lotta armata, nel quale si illustravano i contenuti della loro scelta di dissociazione mentre si trovavano in carcere, aveva come titolo un verso tratto da La musica che gira intorno di Ivano Fossati: «Sarà che avete nella testa un maledetto muro».
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