
07/09/10
Il Riformista
Non sarei sincero se scrivessi che questo Fini che ha parlato a Mirabello è stato convincente. Non mi riferisco a quell'intelaiatura del discorso che lo colloca a pieno titolo nella destra italiana. Solo gli ingenui o i suoi più agguerriti avversari lo avevano inserito a torto nell'altro campo. Né mi sfugge il valore politico della sua dichiarazione sulla fine del progetto Pdl. Ci sono e ci saranno più destre nel nostro paese e l'ombrello berlusconiano ormai non le copre tutte. Questo cambia la politica italiana. Né, infine, mi ha sorpreso la volontà di ricontrattare l'appoggio al governo. Mai come questa volta è tornato di moda parlare del gioco del cerino acceso. Fini lo ha preso e lo ha riconsegnato. Fin qui tutto bene, o tutto male a seconda dei punti di vista. Tuttavia la stampa avversa a Berlusconi ha tessuto solo elogi per il discorso di Mirabello. Ho letto analisi condivisibili ma tre cose negative mi hanno colpito e proverò a dirle con franchezza.
In primo luogo il silenzio sull'"affaire" dell'estate, la benedetta casa di Montecarlo. Conosco l'obiezione. A Mirabello si doveva parlare di politica. Tuttavia c'è un punto che non può sfuggire ad alcuno. La politica moderna è una combinazione di fatti pubblici e privati. L'estrema personalizzazione - introdotta da Berlusconi ma coltivata da tanti altri - ha reso il confine fra i due aspetti assolutamente impercettibile. L'esempio americano ci dice che negli Usa non c'è uomo politico di qualche ambizione che non sottoponga la sua vita privata a questo spesso terribile passaggio di verità. Presidenti e parlamentari si sono trovati nella condizione di dover dare in pubblico spiegazioni di vicende private, talvolta privatissime, che ne avevano offuscato l'immagine. Si trattasse di una relazione sessuale nell'Ufficio ovale o del contratto di una colf immigrata, la pubblica opinione ha sempre chiesto e ottenuto risposte. Il dialogo con il proprio elettorato richiede questo livello di comunicazione.
La forza di persuasione di un progetto politico dipende anche dalla capacità di dissipare le nubi sul capo del leader. Per questo ci aspettavamo che Fini chiudesse la novella estiva dicendo finalmente la sua verità senza rinviarci ai tribunali che decideranno sulle cause intentate per diffamazione dalla bravissima Giulia Bongiorno. L'esercizio di una buona leadership investe tutto il campo della vicenda umana del leader. E comporta il dovere di affrontare in pubblico argomenti spiacevoli. Questa convinzione mi sospinge ad affrontare l'altro aspetto, a esso connesso, della performance di Fini. Lo faccio in punta di penna ma esplicitamente perché è materia delicata.
Il presidente della Camera ha scelto ieri di parlare a una affollatissima platea fra cui c'era la sua compagna. Elisabetta Tulliani è stata posta al centro dell'attenzione in questi mesi in modo spesso inaccettabile. La sua vita è stata scandagliata, un signorotto sgradevole ha raccontato aspetti della sua vita privata, tutti quelli che l'hanno conosciuta non hanno perso l'occasione ghiotta. Giustamente Flavia Perina si è lamentata per la mancanza di solidarietà delle donne di destra, e in verità anche di quelle di sinistra. A Elisabetta Tulliani ha fatto cenno il presidente Fini quando in un comunicato ha rivelato il suo stupore allorché la signora gli rivelò che nella casa di Montecarlo abitava il di lei fratello.
Era del tutto normale che ieri la sua presenza e le parole che Fini le ha dedicato suonassero come smentita di tante voci e di tanti pettegolezzi. Ma perché non si è rivolto solo a lei, ma ha chiesto solidarietà all'intera sua famiglia? Non è forse un componente di quella famiglia ad aver suscitato le sue perplessità nel documento che abbiamo citato? Anche qui soccorre il modello americano. Ci sono stati presidenti che hanno dovuto prendere le distanze da parenti, spesso fratelli, impresentabili e hanno trovato il modo di farlo. Passaggi spiacevoli ma doverosi e tutti resi in pubblico. Non possiamo americanizzarci a metà.
Infine c'è quel terribile anatema di Fini verso i suoi critici. La parola "infame" è impronunciabile per un politico liberale. "Infame" evoca tutto ciò che nella prima parte del suo discorso Fini aveva citato come violenza ai propri danni. "Infame" è chi rompe un accordo, non sta al gioco, tradisce il patto iniziale. Non a caso viene usato nel gergo malavitoso e nelle organizzazioni eversive. Non può essere questo il linguaggio del presidente della Camera. Dare dell'infame a un giornalista, in questo caso almeno a due, i direttori di Libero e Giornale, dovrebbe scandalizzare perché colpisce la libertà di critica e di espressione. Il presidente della Camera non può appellare così i giornalisti che gli sono ostili. E l'abc della democrazia. Nessun esacerbato stato d'animo giustifica questa sgradevole caduta di stile. In democrazia i giornali che avversano la tua linea politica ti fanno le pulci. Ho molte critiche da fare sul modo in cui la campagna stampa si è sviluppata. Tuttavia anche quello è giornalismo. L'organo di stampa che ti inchioda a una verità che crede di aver scoperto svolge il suo ruolo. Lo puoi smentire ma non puoi insultarlo né chiedere all'editore la testa del direttore. Questo valga per tutti, a destra come a sinistra.
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