
27/10/10
la Repubblica
La notizia sulla condanna all'impiccagione emessa in Iraq contro Tareq Aziz e altri esponenti del regime baathista conferma che tutte le condanne a morte sono odiose, e ciascuna lo è a modo suo. Questa perché è ovvia e tardiva. L'ovvietà è odiosa quando mostra come le persone in genere e le autorità in particolare aderiscano ottusamente alla propria parte in commedia, e anche in tragedia. Una condanna capitale inflitta a più di sette anni dall'invasione dell'Iraq e dalla fine proclamata della guerra è brutale non come la vendetta, ma come la burocrazia. Discutere delle responsabilità personali di Tareq Aziz ha senso per chi voglia rifare la storia e anche per il tribunale che voglia esercitare la giustizia penale, ma solo fino alla soglia della condanna capitale. Quest'ultima mette i vincitori dalla parte del torto e pregiudica il futuro della loro impresa.
È stato vero per Saddam Hussein - platealmente, con l'osceno spettacolo della sua esecuzione - e lo è per Aziz, che di quella tirannide rappresentava "il volto umano", cioè l'ipocrisia. Un'ipocrisia cui del resto buona parte dei poteri occidentali era felice di prestarsi, per convenienza d'affari e per il pregiudizio legato alla buona educazione anglosassone e alla fede cattolica. Nel momento in cui ciascuno si misurò con le scelte decisive, Tareq Aziz non seppe distinguersi, e anche nelle migliori stanze del Vaticano e di Assisi stette al gioco d'azzardo del suo capo, illudendosi forse che gli ultimatum americano e inglese si lasciassero fermare dalla diplomazia internazionale e dalla mobilitazione pacifista. Qualunque cosa pensasse in realtà, Aziz, anche lui sequestrato nella sua parte, fece propri i toni rodomonteschi del suo principale. Se davvero nel regime iracheno si prese in considerazione l'esilio pur di scongiurare l'invasione, Aziz non ne diede segno. Diceva la verità quando assicurava che da anni l'Iraq non disponeva più di armi di distruzione di massa, e mentivano, anche scientemente, coloro che avevano deliberato l'invasione e che non se ne sarebbero lasciati distogliere a nessun costo. "Siamo in grado di difenderci da soli", proclamò. Era una millanteria. La "guerra" non ebbe partita.
Il dopo guerra, al contrario, non è mai finito. Guerra e dopoguerra si sono riempiti di crimini, e la mano feroce dei tribunali dei vincitori è il peggior modo di riscattarli. I tribunali internazionali delle Nazioni Unite, che giudicano imputati di regimi colpevoli di genocidi terribili, escludono dal proprio statuto la pena di morte, e questa esclusione è la condizione preliminare "alla loro autorità. Ieri si sono sentite da noi dichiarazioni solenni sull'Occidente che ripudiala pena di morte: magari. La contraddizione sta nell'accettazione della pena di morte da parte degli Stati Uniti, tanto più amara nella condizione dell'Iraq. Bisogna sperare che l'opinione delle persone e dei paesi faccia prevalere negli americani l'auspicio della rinuncia alla pena capitale a Baghdad. E almeno l'adesione al voto delle Nazioni Unite per la moratoria sulla pena di morte. Marco Pannella stava facendo uno sciopero della fame col duplice proposito di denunciare l'intollerabile situazione carceraria italiana e di richiamare l'attenzione sull'opportunità mancata dell'esilio consensuale di Saddam Hussein e della sua corte, che avrebbe sventato l'intervento militare.
Convinto che a quella eventualità lo stesso tiranno fosse disponibile, Pannella ha visto nella condanna capitale di Aziz ieri, come già in quella di Saddam Hussein, oltre che lo scandalo della pena di morte, contro il quale i radicali si battono coi migliori titoli, il calcolo di mettere a tacere personalità che potrebbero testimoniare sulla disponibilità all'esilio con un salvacondotto e alla caduta della tirannide di Saddam senza ricorso alla guerra. È un tema importante, e alla convinzione di Pannella non mancano indizi, benché più probabilmente Saddam e i suoi fossero così accecati dal proprio stolido fanatismo e dall'azzardo sulle divisioni internazionali e la mobilitazione pacifista da credere fino all'ultimo di riuscire a legare le mani di neocon e militari interventisti. Cui, si è visto, prudevano troppo. Come che sia, strappare Tareq Aziz e gli altri condannati all'esecuzione quando è comunque assicurata loro la galera a vita - è un impegno grave di tutti, se non per ricostruire il passato, per immaginare un futuro meno tetro.
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