
Dalla Statale 12 non si vede niente. «Venga, mi segua». La donna si incammina lungo un canale, scosta alcune piante come fossero il sipario di un teatro. «Eccola, la nostra piccola Brianza» sospira prima di mettersi a piangere. «Un tonfo dalle viscere della terra, ed è finito tutto». Non c’è molto altro da dire. C’è solo da raccontare la devastazione. Cavezzo si trova in zona a bassa sismicità, c’è scritto anche su un dépliant che abbiamo appena raccolto tra le macerie del municipio. Invece, quella che fino a ieri mattina era la zona industriale è accartocciata ai lati di un viale, una decina di edifici sventrati che mostrano i loro interni, uno spettacolo osceno al quale assistono decine di lavoratori ancora incapaci di andarsene, non vogliono capire che non c’è più nulla, e chissà per quanto sarà ancora così. L’allarme della Fresenius Hemo Care, azienda di biomedica, suona da ore, ma nessuno ha il coraggio di varcare la soglia per far tacere quel suono snervante. Blocchi di cemento armato penzolano a pochi metri da terra insieme a decine di cavi elettrici. L’Officina dei fratelli Ronchetti sembra piegata su se stessa. Nel cortile c’è un camion schiacciato da un macchinario di acciaio che si è staccato dal soffitto. L’azienda di fronte è la Duglas- Malavasi, uno dei primi mobilifici di questo paese di 7.300 abitanti che molto tempo fa sognava di fare concorrenza al distretto brianzolo. Il corpo di Daniela, la moglie del titolare, lo hanno appoggiato sotto l’albero che aveva piantato alla nascita del suo primo figlio. Faceva la mamma a tempo pieno, due ragazzi di 16 e 10 anni che adesso camminano da soli nel prato della casa di famiglia, con i nonni che li guardano da lontano, senza il coraggio di avvicinarsi. Daniele Soli del ricamificio Ludlan, ha trattenuto Emanuele che urlava e voleva tornare indietro quando ormai era venuto giù tutto. «Brava gente, che tribola perché gli altri non pagano. Avevano chiesto di affittare a terzi un magazzino per far quadrare i conti». Anche della sua azienda non resta molto. «Dentro è peggio, ma chi ci va dentro a vedere? Io no, di sicuro». I pannelli che fanno da parete esterna sono divisi da fessure larghe trenta centimetri. Gli avevano assicurato che erano a prova di terremoto. Come quelli della Shervin Williams, il colorificio dove è morto un operaio ancora senza nome, schiacciato da uno di questi blocchi di cemento precipitati nel cortile che adesso rendono nuda l’azienda. Dalla strada si vedono i computer nell’ufficio al primo piano. La scrivania è sormontata dal poster di un Gesù con l’aureola che sembra impartire la benedizione. Cavezzo è l’unità di misura del terremoto di ieri, la sua devastazione dimostra come sia riduttivo, magari vigliacco, ridurre questa tragedia a una faccenda di capannoni industriali crollati con il loro inevitabile tributo di vite umane. Il suo centro non esiste più, via Marconi e via Primo maggio, le due arterie del paese, sono un lungo elenco di edifici sventrati, sembra che siano esplosi. Il paese è diviso in tre compartimenti stagni, separati da barriere di detriti. L’unico gruppo di case rimasto intatto è quello del vecchio condominio dell’Ina Casa, edilizia popolare datata 1955, come si legge sulla targa all’ingresso. Tutti gli edifici costruiti di recente invece hanno subito danni. Il nuovo centro commerciale ricavato pochi anni fa dalla vecchia Società operaia è crollato. Dalle macerie spuntano come una beffa le insegne del negozio di parrucchiere, della palestra. Piazza Matteotti, il cuore pulsante, è diventato una quinta grottesca dove a ogni lato intorno al monumento sormontato da un leone di marmo corrisponde un palazzo crollato. Il condominio sulla sinistra è l’unico rimasto in piedi, ma la sua sommità ha un folle angolo acuto al centro, come se stesse per ripiegarsi su se stesso. Il campanile della chiesa sembra mozzato di netto, i mattoni rossi delle pareti sono sparpagliati ovunque. All’Esperia, il cinema della parrocchia, al posto delle locandine dei film il parroco ha affisso due fogli stampati al computer: «Siamo vivi, grazie a Dio». Alle 16.30 lo sentiamo anche noi, il tonfo. Camminiamo su via Primo maggio, al centro della carreggiata, e all’improvviso l’asfalto si abbassa per poi rialzarsi, come una molla. La sensazione è quella, di una spinta verso il basso seguita da un’altra di segno contrario. Dalla corte di un casale attraversato al centro da una crepa dove potrebbe passarci una mano, esce un uomo in canottiera. Nel 1980 Mariano Cipriano aveva 17 anni e viveva in provincia di Avellino. La sua famiglia salì al Nord subito dopo il terremoto che aveva distrutto il palazzo dove vivevano. È un muratore in cassa integrazione, si chiede come farà a pagare i danni. «Qui siamo tutti furibondi perché dopo la scossa del 20 maggio non si è fatto vedere nessuno». Tra gli abitanti in coda al centro d’emergenza allestito a Villa Giardino si percepisce la stessa rabbia, che accomuna persone e situazioni diverse, chi denuncia il crollo dell’abitazione e chi la scomparsa del gatto. «Dieci giorni fa noi eravamo la serie B», dice Maria Elena, la donna che ci ha fatto strada nella zona industriale. «Non abbiamo avuto morti, la nostra colpa era questa», le fa eco Luisa Guerzoni, che tra le braccia regge coperta e cuscino e si prepara a trascorrere la notte all’addiaccio. Al civico 26 di via Primo maggio, sotto a un condominio che è scivolato sulla strada, c’era una donna di 63 anni, che al mattino era entrata in quello stabile, dichiarato inagibile da dieci giorni, per prendere alcuni oggetti personali. Non c’era solo il pudore che impediva di fornire le generalità, ma anche uno strazio ulteriore. Era la madre del capo della Protezione civile di Cavezzo, che stava scavando dall’altra parte del paese e ancora non sapeva. Davanti a quello spettacolo non era lecito nutrire la minima speranza. Invece, ogni tanto, i miracoli accadono. Una architrave l’ha protetta per dieci ore, una vittima in meno da piangere. «Chi può vada via. Non sappiamo dove mettere la gente, le tende della Protezione civile arriveranno solo domani». Stefano Draghetti accetta di essere fotografato. «Così l’Italia capisce come siamo messi». Il sindaco di Cavezzo ha il volto tumefatto, la camicia macchiata del suo sangue. Ieri mattina uno schedario volato dalla parete del municipio gli ha aperto il sopracciglio sinistro. «Capisco la rabbia dei miei compaesani. Dopo la scossa di domenica, i vigili del fuoco si sono presentati soltanto il giovedì seguente. Ci consideravano dei miracolati. Adesso noi ci rimbocchiamo le maniche, ma voi dovete darci una mano». La sua decisione di dichiarare inagibili gran parte degli edifici colpiti dal sisma del 20 maggio è alla base di un bilancio che sembra esiguo davanti a questo scempio. Guarda orgoglioso la sua gente, che si scambia sacchi a pelo, divide una intimità a cielo aperto, con cibo e telefoni cellulari che diventano un bene comune. «Noi ci rimbocchiamo le mani, ma voi dovete darci una mano». Al tramonto la rotonda che porta alla Statale 12 diventa il punto di raccolta per le comitive che passeranno la notte sugli Appennini. Ci sono gruppi di persone che si avviano in bicicletta, altri a bordo di un camper. Sul ciglio di una strada di campagna camminano due operai in tuta. Parlano arabo, stanno chiamando casa. Accanto a loro si ferma una macchina di lusso, una station wagon Bmw. Si apre la portiera. «Salite, stasera siete miei ospiti ». Coraggio, ce la farete.] Dalla Statale 12 non si vede niente. «Venga, mi segua». La donna si incammina lungo un canale, scosta alcune piante come fossero il sipario di un teatro. «Eccola, la nostra piccola Brianza» sospira prima di mettersi a piangere. «Un tonfo dalle viscere della terra, ed è finito tutto». Non c'è molto altro da dire. C'è solo da raccontare la devastazione. Cavezzo si trova in zona a bassa sismicità, c'è scritto anche su un dépliant che abbiamo appena raccolto tra le macerie del municipio. Invece, quella che fino a ieri mattina era la zona industriale è accartocciata ai lati di un viale, una decina di edifici sventrati che mostrano i loro interni, uno spettacolo osceno al quale assistono decine di lavoratori ancora incapaci di andarsene, non vogliono capire che non c'è più nulla, e chissà per quanto sarà ancora così. L'allarme della Fresenius Hemo Care, azienda di biomedica, suona da ore, ma nessuno ha il coraggio di varcare la soglia per far tacere quel suono snervante. Blocchi di cemento armato penzolano a pochi metri da terra insieme a decine di cavi elettrici. L'Officina dei fratelli Ronchetti sembra piegata su se stessa.
Nel cortile c’è un camion schiacciato da un macchinario di acciaio che si è staccato dal soffitto. L’azienda di fronte è la Duglas- Malavasi, uno dei primi mobilifici di questo paese di 7.300 abitanti che molto tempo fa sognava di fare concorrenza al distretto brianzolo. Il corpo di Daniela, la moglie del titolare, lo hanno appoggiato sotto l'albero che aveva piantato alla nascita del suo primo figlio. Faceva la mamma a tempo pieno, due ragazzi di 16 e 10 anni che adesso camminano da soli nel prato della casa di famiglia, con i nonni che li guardano da lontano, senza il coraggio di avvicinarsi.
Daniele Soli del ricamificio Ludlan, ha trattenuto Emanuele che urlava e voleva tornare indietro quando ormai era venuto giù tutto. «Brava gente, che tribola perché gli altri non pagano. Avevano chiesto di affittare a terzi un magazzino per far quadrare i conti». Anche della sua azienda non resta molto. «Dentro è peggio, ma chi ci va dentro a vedere? Io no, di sicuro». I pannelli che fanno da parete esterna sono divisi da fessure larghe trenta centimetri. Gli avevano assicurato che erano a prova di terremoto. Come quelli della Shervin Williams, il colorificio dove è morto un operaio ancora senza nome, schiacciato da uno di questi blocchi di cemento precipitati nel cortile che adesso rendono nuda l'azienda. Dalla strada si vedono i computer nell'ufficio al primo piano. La scrivania è sormontata dal poster di un Gesù con l'aureola che sembra impartire la benedizione. Cavezzo è l'unità di misura del terremoto di ieri, la sua devastazione dimostra come sia riduttivo, magari vigliacco, ridurre questa tragedia a una faccenda di capannoni industriali crollati con il loro inevitabile tributo di vite umane. Il suo centro non esiste più, via Marconi e via Primo maggio, le due arterie del paese, sono un lungo elenco di edifici sventrati, sembra che siano esplosi.
Il paese è diviso in tre compartimenti stagni, separati da barriere di detriti. L'unico gruppo di case rimasto intatto è quello del vecchio condominio dell'Ina Casa, edilizia popolare datata 1955, come si legge sulla targa all'ingresso. Tutti gli edifici costruiti di recente invece hanno subito danni. Il nuovo centro commerciale ricavato pochi anni fa dalla vecchia Società operaia è crollato. Dalle macerie spuntano come una beffa le insegne del negozio di parrucchiere, della palestra. Piazza Matteotti, il cuore pulsante, è diventato una quinta grottesca dove a ogni lato intorno al monumento sormontato da un leone di marmo corrisponde un palazzo crollato. Il condominio sulla sinistra è l'unico rimasto in piedi, ma la sua sommità ha un folle angolo acuto al centro, come se stesse per ripiegarsi su se stesso. Il campanile della chiesa sembra mozzato di netto, i mattoni rossi delle pareti sono sparpagliati ovunque. All'Esperia, il cinema della parrocchia, al posto delle locandine dei film il parroco ha affisso due fogli stampati al computer: «Siamo vivi, grazie a Dio». Alle 16.30 lo sentiamo anche noi, il tonfo. Camminiamo su via Primo maggio, al centro della carreggiata, e all'improvviso l'asfalto si abbassa per poi rialzarsi, come una molla. La sensazione è quella, di una spinta verso il basso seguita da un'altra di segno contrario. Dalla corte di un casale attraversato al centro da una crepa dove potrebbe passarci una mano, esce un uomo in canottiera. Nel 1980 Mariano Cipriano aveva 17 anni e viveva in provincia di Avellino. La sua famiglia salì al Nord subito dopo il terremoto che aveva distrutto il palazzo dove vivevano. È un muratore in cassa integrazione, si chiede come farà a pagare i danni. «Qui siamo tutti furibondi perché dopo la scossa del 20 maggio non si è fatto vedere nessuno».
Tra gli abitanti in coda al centro d'emergenza allestito a Villa Giardino si percepisce la stessa rabbia, che accomuna persone e situazioni diverse, chi denuncia il crollo dell'abitazione e chi la scomparsa del gatto. «Dieci giorni fa noi eravamo la serie B», dice Maria Elena, la donna che ci ha fatto strada nella zona industriale. «Non abbiamo avuto morti, la nostra colpa era questa», le fa eco Luisa Guerzoni, che tra le braccia regge coperta e cuscino e si prepara a trascorrere la notte all'addiaccio. Al civico 26 di via Primo maggio, sotto a un condominio che è scivolato sulla strada, c'era una donna di 63 anni, che al mattino era entrata in quello stabile, dichiarato inagibile da dieci giorni, per prendere alcuni oggetti personali. Non c'era solo il pudore che impediva di fornire le generalità, ma anche uno strazio ulteriore. Era la madre del capo della Protezione civile di Cavezzo, che stava scavando dall'altra parte del paese e ancora non sapeva. Davanti a quello spettacolo non era lecito nutrire la minima speranza. Invece, ogni tanto, i miracoli accadono. Una architrave l'ha protetta per dieci ore, una vittima in meno da piangere. «Chi può vada via. Non sappiamo dove mettere la gente, le tende della Protezione civile arriveranno solo domani». Stefano Draghetti accetta di essere fotografato. «Così l'Italia capisce come siamo messi». Il sindaco di Cavezzo ha il volto tumefatto, la camicia macchiata del suo sangue. Ieri mattina uno schedario volato dalla parete del municipio gli ha aperto il sopracciglio sinistro. «Capisco la rabbia dei miei compaesani. Dopo la scossa di domenica, i vigili del fuoco si sono presentati soltanto il giovedì seguente. Ci consideravano dei miracolati. Adesso noi ci rimbocchiamo le maniche, ma voi dovete darci una mano».
La sua decisione di dichiarare inagibili gran parte degli edifici colpiti dal sisma del 20 maggio è alla base di un bilancio che sembra esiguo davanti a questo scempio. Guarda orgoglioso la sua gente, che si scambia sacchi a pelo, divide una intimità a cielo aperto, con cibo e telefoni cellulari che diventano un bene comune. «Noi ci rimbocchiamo le mani, ma voi dovete darci una mano». Al tramonto la rotonda che porta alla Statale 12 diventa il punto di raccolta per le comitive che passeranno la notte sugli Appennini. Ci sono gruppi di persone che si avviano in bicicletta, altri a bordo di un camper. Sul ciglio di una strada di campagna camminano due operai in tuta. Parlano arabo, stanno chiamando casa. Accanto a loro si ferma una macchina di lusso, una station wagon Bmw. Si apre la portiera. «Salite, stasera siete miei ospiti ». Coraggio, ce la farete.
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